Harrison Ford e quello che 40 anni fa fece per Blade Runner

Moltissimo di quello che Blade Runner riesce a fare (rendere desiderabile una realtà da incubo) passa sottotraccia attraverso Harrison Ford

Critico e giornalista cinematografico


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Il design delle scenografie, dei costumi e degli effetti speciali è la parte più nota e influente di Blade Runner (per quanto sia frutto di un puzzle di influenze diverse a sua volta), meno invece si parla di Harrison Ford e della maniera in cui si muove dentro questo scenario.

È banale a dirsi ma nonostante il film abbia 3 protagonisti (Deckard, Rachel, la banda dei Nexus 6) è Harrison Ford quello più pregnante, non solo perché è quello con il maggiore minutaggio e con il quale ci identifichiamo di più, ma anche perché mentre i Nexus 6 non hanno un arco narrativo (solo Roy Batty ne ha uno negli ultimi minuti, che è una grande idea ma anche ciò che lo identifica proprio come un villain) e Rachel in un momento puntuale scopre qualcosa che la cambia, Deckard è in transizione lungo tutto il film. La transizione è così ermetica che la sua stessa essenza è stata dibattuta per anni (capisce di essere un replicante o no?) e lo è perché è lasciata solo al lavoro di Harrison Ford. Non esiste nella trama ma solo nella sua recitazione.

Deckard entra in scena in mezzo alla folla a livello strada, posto in cui starà spesso lungo il film. Legge un giornale appoggiato alla vetrina di un negozio pieno di televisori, un’inquadratura che da sé uccide tutto il capitale di “predittività” del film (giornali di carta nel futuro?? Televisori a tubo catodico??), siamo in un film noir e lui è l’investigatore duro. È uno smargiasso, faccia furba e vita solitaria. Come sempre accadrà cammina contro corrente, cioè la folla gli va contro o lo ostacola, mai nella sua stessa direzione. È uno dei molti modi in cui Deckard è rappresentato come l’esempio migliore della persona sola in un film che è tutto centrato sul sentirsi distaccati dagli altri in una metropoli moderna enfatizzata in ogni suo tratto. Sentirsi soli e sopprimere un bisogno di contatto umano che si presenta con devastanti impatti alla prima difficoltà.

Quando incontra Gaff, un altro cacciatore di replicanti come lui che lo recluta per il lavoro, è reticente ma non ha nessun timore, è furbo e non teme nulla. La cosa sarà importante. Adesso Harrison Ford sta proprio recitando Humphrey Bogart, il modello aureo del detective noir che ne ha viste troppe per lasciarsi sconvolgere da qualsiasi cosa, che la sa più lunga di tutti e che è tutto stropicciato da una vita condotta male in un posto dove sembra impossibile condurne una sana. E sarà ancora un uomo di pietra dopo aver parlato con il capitano Bryant e poi ancora dopo aver eseguito il test su Rachel, nonostante l’esito lo stupisca. Totalmente impermeabile anche se l’incontro con la donna replicante ha acceso qualcosa ma quel qualcosa non lo dice Harrison Ford, lo dice l’eco della stanza e lo dice la musica.

È proprio lungo l’indagine, a mano a mano che Deckard capisce cosa stanno facendo i Nexus 6 e inizia a farsi domande sulla propria natura, che qualcosa cambia. E in questo sono cruciali le scene aggiunte nei vari director’s cut. Quelle scene espandono l’idea del mondo interiore di Deckard, creano il fatto stesso che ne esista uno da esplorare, e aiutano a comprendere la transizione della recitazione di Harrison Ford, che è sempre più fragile. Lo sarà nell’incontro con Rachel in casa sua, quello che innesca i suoi dubbi partendo duro e scontroso ma poi lentamente sciogliendosi e rivelando il proprio bisogno di un altro. Lo sarà quando si affaccia in maniera malinconica al balcone di casa sua, guardando da dentro una coperta un mondo in cui non si vedono umani, e lo sarà da morire infine dopo aver ucciso Zhora. L’operazione dovrebbe essere una routine per lui, è il suo lavoro, eppure è distrutto. Cerca di parlare con qualcuno anche solo un ambulante ma viene raggiunto da Gaff, come all’inizio, solo che stavolta reagisce spaventato.

Harrison Ford non è attore da grandi prestazioni espressioniste, non è attore che enfatizza, non è un attore che ama il clamoroso, ma anzi uno che adora lavorare con poco e portare a casa le scene con piccole minuzie e gesti minimi. In Blade Runner è capace di stare rintanato dietro le stesse espressioni metà film per poi uscire allo scoperto solo ed esclusivamente quando serve, enfatizzando l’effetto anche solo di un cambio che rompe la regola. È sempre stata la sua forza, la piccola variazione, ma questo è uno dei saggi più convincenti sulla sua efficacia.

Mentre va One More Kiss, Dear, quell’atmosfera da finti anni ‘40 veicolata dalla musica, dalla fotografia e dai ruoli dei personaggi lavora per raccontare quel che dice sempre il noir: un mondo in cui è facile morire e difficile amare. E nonostante sia un brutto ideale, nonostante la Los Angeles del futuro sia fatta per non piacere, per essere terribile, un incubo, quello di Blade Runner è un mondo in cui si desidera di stare a lungo. La ragione sta nella qualità onirica del film, in cui tutto sembra avvenire come in uno stato di eterno dormiveglia, con i controluce del sole ai piani alti o dei neon a quelli bassi, i grandi riverberi e una malinconia che attira e ha il sapore della vita vissuta intensamente. Eppure sta anche nelle piccole fessure attraverso le quali passano dei sentimenti che proprio per questo loro doversi schiacciare per passare sono sottoposti ad una pressione fortissima. E quelle fessure le crea Harrison Ford, solo come non mai mentre scopre di non desiderare altro che qualcuno con cui entrare in contatto.

Quando alla fine si arriverà al confronto finale con Roy Batty, sul tetto, Harrison Ford ha terminato la trasformazione e da potente cacciatore, cercato perché l’unico in grado di completare la missione, è diventato impotente, fragile, a rischio di morte continuo. Lo è nella trama ma soprattutto in come recita. Sa portare la sorpresa della morte imminente (e poi lo sconvolgimento successivo al salvataggio) in un altro reame, come se quell’animo morbido che aveva nascosto venisse fuori tutto insieme e fosse scoperto al freddo. Ha paura anche dopo essere stato salvato. Non ce ne siamo resi conto talmente è stata sottile e misurata la trasformazione ma se a quel punto del film di colpo lo ricominciassimo e ne vedessimo la spavalderia iniziale ci sembrerebbe un altro personaggio in un altro film.

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