Hancock si meritava un cineuniverso
Hancock con Will Smith era un ottimo primo capitolo di un potenziale franchise, del quale purtroppo non abbiamo più notizie
Il problema di Hancock è che è uscito troppo presto, e accompagnato da aspettative completamente sballate. Ci è stato venduto come film di supereroi, e di supereroi politicamente scorretti per di più: Will Smith dice le parolacce! Si ubriaca! Sfascia le cose senza pentirsene! Sembrava che dovesse essere una sorta di Deadpool in anticipo, il problema è che nel 2008 il mondo del cinema mainstream non era ancora pronto per Deadpool; né Hancock voleva essere quel genere di “film scorretto”. E sembrava che dovesse stordirci con effetti speciali ed elaborate scene d’azione e superpoteri; e invece è un character study poco interessato alle dinamiche classiche del film di supereroi, al punto da arrivare a rinunciare in partenza all’idea di avere un vero villain. Se uscisse oggi siamo sicuri che verrebbe accolto in maniera completamente diversa, e non ci sarebbero dubbi sull’opportunità o meno di farne un sequel, o due, o tre.
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La chiave di volta per capire queste reazioni un po’ confuse sta, secondo noi, non tanto in Peter Berg, la cui impronta è comunque molto evidente sia nelle scene d’azione sia nell’uso/abuso di primi e primissimi piani ansiogeni durante i dialoghi, quanto nella persona che Hancock l’ha scritto, e che giusto quell’anno stava per cominciare un’avventura che l’avrebbe portato dritto dritto nella storia della TV. Stiamo parlando di Vince Gilligan, il creatore di Breaking Bad: come quel tizio lì che ti bussa alla porta, anche Hancock è un perdente di talento che si trova alla fine di fronte a un bivio e deve decidere come ricostruire la propria vita; e come nella serie AMC, il lato umoristico delle faccende è implicito e spesso ricoperto da strati di disagio e di grottesco, e quasi mai esplicitato nei dialoghi.
[caption id="attachment_481626" align="aligncenter" width="1400"] "Good job"[/caption]
Il dettaglio più affascinante di Hancock, però, è la cura con il quale è stata costruita, e poi solamente accennata nel prodotto finale, la mitologia che sta dietro ai poteri di Will Smith e (spoiler?) Charlize Theron. In assenza di un vero villain (Eddie Marsan è più un plot device che un personaggio), è necessario spiegare come mai i due non possano convivere pacificamente, e Gilligan si inventa una complicata spiegazione a base di superpoteri che si annullano vicendevolmente, e di una stirpe quasi estinta di supereroi zacksnyderiani (Mary/Theron dice a un certo punto che “con il tempo ci hanno chiamato prima dèi, poi angeli, ora siamo supereroi) delle cui origini e motivazioni non sappiamo sostanzialmente nulla.
Ecco, se proprio bisogna leggerlo con la lente dei superpoteri Hancock è la più classica delle origin story (un percorso di crescita che trasforma una “persona con poteri” in vero supereroe), alla quale manca però, per farla semplice, la parte in cui Krypton viene distrutto e Superman viene lanciato sulla Terra in un razzo. Chi sono gli altri supereroi che sono scomparsi, chi li ha portati sulla Terra, e perché? È la domanda che viene spontaneo farsi quando partono i titoli di coda, per rispondere alla quale sarebbe necessario almeno un sequel; del quale si parla dal 2008 ma che ancora sembra esistere solo nella testa di Charlize Theron.
Siamo convinti che se Hancock uscisse oggi le cose andrebbero diversamente: nel 2008 uscivano Il cavaliere oscuro e Iron Man, i due estremi dello spettro supereroistico che avrebbero impiegato anni a trovare una quadra (o più quadre diverse, a dire la verità) e a conciliare la voglia di storie serie, profonde e intellettualmente stimolanti con quella di divertirsi e godersi battute a raffica e sequenze d’azione costruite come giostre del luna park. A Hancock mancava una solida base mitologica perché potesse diventare questa quadra: il film ebbe successo prima di tutto perché c’era Will Smith alcolizzato che diceva le parolacce e disseminava la città di one liner, e perché c’era Charlize Theron, ma con il senno di poi il vero motivo per cui è così interessante e meno banale di quanto sembri è il modo in cui Gilligan costruisce i personaggi – non solo il duo protagonista, ma anche l’uomo comune Jason Bateman, che vede del buono in ogni cosa. 13 anni dopo, le parolacce e Charlize Theron continuano a funzionare alla grande, ma è tutto il resto che, secondo noi, sarebbe pronto per essere finalmente apprezzato a dovere. Certo, per farlo servirebbe quel benedetto sequel...