Hammamet, di Gianni Amelio | Bad Movie

Il Bad Movie della settimana è Hammamet di Gianni Amelio, gli ultimi anni di vita di Bettino Craxi interpretato da un magistrale Pierfrancesco Favino

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Spoiler Alert

La nostra analisi di Hammamet, di Gianni Amelio, al cinema dal 9 gennaio

1994

"Ecco. E invece l'altro, il Vecchio che telefona, no? Infatti alla fine della telefonata manda sempre un saluto: 'Ti mando un saluto da questa spiaggia lontana... oh, Hammamet, la mia prigione più bella sei tu! Commovente! Silvio, consentimi... che prima o poi vedrai, ci vieni anche tu!' Dove? Ad Hammamet! Ahaaaaa! Ad Hammamet! Ahaaaaa! Ma dove è finito il mio spazzolino da denti? Ad Hammamet! E la mia mountain bike? Ad Hammamet! E la contessina Vacca? Ad Hammamet! E la mia protesi? Ad Hammamet! È un miracul che succede ad Hammamet!"

Era il 1994 e Paolo Rossi cantava nello stile del cabaret dialogato milanese (leggi: il testo non è sacro e può essere modificato all'uopo) questa formidabile canzoncina con piccoli innesti dialettali dal ritmo indiavolato spesso e volentieri dentro il programma tv che faceva con Piero Chiambretti su Rai3 intitolato Il Laureato, in cui si andava nelle università italiane a fare uno show di satira e canzoni dal vivo nell'aula magna dell'ateneo scelto. Si trattava di una trasmissione piuttosto mordace e pimpante soprattutto quando attaccava il primo governo guidato Silvio Berlusconi ("Era meglio morire da piccoli,
soffocati da tanti turaccioli, soffocati da tanti batuffoli, che vedere 'sto schifo da grandi!"). Se recuperando su youtube Ad Hammamet ripenserete a Jannacci, sappiate che per Rossi, in un anno di popolarità eccezionale per lui anche grazie al successo de Il Laureato in tv, in quel periodo si sarebbe concretizzato un sogno: andò a Sanremo a cantare con il suo Maestro, proprio Jannacci, la divertente I Soliti Accordi. Era sempre quel fatidico 1994.

Perché questa intro al Bad Movie? Per restituirvi parte del sentimento che aleggiava in una parte d'Italia in quegli anni soprattutto presso i più giovani, che vedevano Il Laureato di Rossi/Chiambretti in tv ma non solo, e che sognavano un ricambio generazionale della classe politica in relazione allo scandalo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese mise sotto scacco gran parte della politica italiana riscontrando l'illecito del finanziamento pubblico ai partiti da parte dei più importanti apparati della Prima Repubblica. Bettino Craxi, uno dei pezzi da 90 se non il pezzo da 90 di quel processo alla politica anni '90, decise, in quel 1994, di andare ad Hammamet in latitanza. Per i suoi estimatori era preferibile l'espressione esilio volontario. E allora ecco che la canzone di Rossi sfruttava il nome buffo della location per vagheggiarla come destinazione ultima, esilarante, dell'ingombrante Craxi e dell'ancora più enorme, vagheggiato tesoro craxiano concernente anche, nel testo della canzone, spazzolini da denti e mountain bike. Dove avremmo trovato tutti i soldi che il leader del Partito Socialista Italiano aveva raccolto negli anni? Ad Hammamet. Dove sarebbe approdata la "contessina Vacca" dopo la misteriosa sparizione? Ad Hammamet. Sembrava Le Mille e una Notte e nello specifico la fiaba di Alì Babà e i quaranta ladroni con tesori accessibili tramite password stile: "Apriti Sesamo!". Nello humour satirico di Rossi lui era andato via, se la spassava ad Hammamet e da lì chiamava al telefono il Nuovo che Avanza ovvero il neoeletto Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, amico storico, per fargli capire che ad Hammamet ci sarebbe stato posto, in futuro, anche per lui. È interessante ripensare a quell'anno, quella canzone (potete ascoltarla qui con interventi di Lucia Vasini e Giovanni Storti) e quell'idea di esotico escamotage da avventuriero imprendibile stile Diabolik e poi vedere il film intitolato Hammamet di Gianni Amelio dove la località tunisina si trova dentro un altro testo narrativo intitolato appunto come quella tanto discussa città nordafricana. Passati 26 anni... ad Hammamet è tutta un'altra musica. Anche se si tratta di un film.

2020

È una reggia sbiadita ripresa da una regia attenta. La luce del sole pare caliginosa e "non si vede nemmeno il mare" come dice un politico democristiano che va dal Presidente col cappello panama in mano. L'Hammamet di Gianni Amelio è un posto né bello né brutto, non inviolabile (che bella la palpabile sensazione di un fuoricampo friabile attorno al Presidente durante l'irruzione del figlio di un suo compagno di partito all'inizio del film). Pare semplicemente un'anticamera dai muri sbiaditi e palme smunte che dovrebbe condurre il residente chiamato qui solo ed esclusivamente Presidente verso un aldilà di cui ora, in prossimità della morte, anche lui si chiede qualcosa ("È vero che Dio non c'è?" "Se c'è, sarò l'ultimo a saperlo" gli risponde l'elegante democristiano). È il nostro Craxi? No, è il Craxi di Amelio. È ferito ad una gamba (la sinistra) che gli sta andando in cancrena per via del diabete e allora eccolo canticchiare, lui e non Paolo Rossi, sovrappensiero: "Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba / Garibaldi che comanda / Che comanda il battaglion". Ma quella non è Caprera, lui non è Garibaldi e suo nipote grassottello, che gioca sempre ai soldatini, non sa nemmeno quante giubbe rosse sbarcarono a Marsala. In mezzo a questo spazio così neutro, il Presidente sembra neutralizzato. Sua moglie, molto rilassata e gioviale, vede in tv Le Catene Della Colpa (1947) di Jacques Torneur (dove tra Jane Greer e Robert Mitchum c'è uno scambio di battute molto simile a quello che lui avrà con la figlia Anita: "Siamo cattivi, tu ed io: per questo andremo d'accordo"), Là Dove Scende il Fiume (1952) di Anthony Mann e Secondo Amore (1955) di Douglas Sirk mentre quando lui si siede pesantemente accanto a lei sul divano, eccolo cambiare subito col telecomando sintonizzandosi su Paolo Bonolis. Per Amelio, cinefilo come e più della consorte di Craxi Anna Maria Moncini, questa sequenza potrebbe essere l'atto d'accusa più grave di tutto il film. Uno che preferisce Bonolis a Douglas Sirk è certamente un maleducato nei confronti del prodotto audiovisivo. Pare non ci sia alcun tesoro, Alì Babà o anche un figlio di nome Bobo, il quale nella sua versione cinematografica è in Italia cercando di avere l'appoggio del Nuovo che Avanza e non riesce a interagire col Presidente se non dedicandogli Piazza Grande di Lucio Dalla quando arriva a trovare il padre ex padrone. E lui? Il protagonista indiscusso del film? Strani percorsi della mente si affacciano in un inconscio che Amelio filma con precisa freddezza. Sensi di colpa che non ti aspetteresti mai sembrano venir fuori all'improvviso, specie in compagnia di un altro figlio o meglio del figlio dell'altro. Nella non invalicabile fortezza del Presidente si è infatti introdotto facilmente uno straniero, armato forse di pistola e sicuramente di telecamera, figlio di quel compagno di partito che avvertì il Presidente all'inizio del film e che lui liquidò come pazzo perché in quel momento era invincibile (rieletto con il 92,3% dentro il suo partito), altissimo in mezzo ai nanetti della Prima Repubblica e non piccolo in mezzo al nulla della futura Hammamet. Si poteva fare di più scritturando un attore più aggressivo e meno estetizzante di Luca Filippi, perché quel giovane malato di mente è dannatamente accattivante all'interno dell'economia di un film che punta tutto sulle contraddizioni nella psiche sempre più rivelatoria dell'interiorità del Presidente. E qui arriviamo al nocciolo del film: la propaganda, sempre più stanca, esteriore e la condanna, sempre più forte, interiore. Il Presidente da fuori dice che l'ultima immagine che vedrà sarà quella dell'amante storica (un po' per ferire la castrante figlia Anita che lo accudisce col rimprovero nello sguardo, un po' per ribadire di essere un bad boy, un po' perché è un tristissimo veterosessuale italiano trito e ritrito per cui è essenziale andare in buca soprattutto al di fuori del matrimonio) e poi invece non sarà così. Dice di sentirsi innocente e poi vedremo che non sarà così. Nel senso che Amelio è molto chiaro nel condannarlo attraverso il tribunale del suo stesso inconscio che contraddice dentro tutto ciò che lui proclama fuori, arrivando a un sogno finale spietato in cui non avrà nemmeno il piacere infantile di vedere effettivamente la sua amante storica come ultima immagine bensì invece un sé stesso preso per le orecchie e processato già da piccolo, accompagnato da un distaccato padre padrone (Omero Antonutti) che assiste freddo a qualcuno che insulta quel piccolo brigante ("Maleducato, Manigoldo, Malfattore, Malvivente, Maligno"). Amelio è chirurgico. Basta solo sapere vedere un film che si dispiega magnificamente sotto i nostri occhi con una tesi centrale molto forte ovvero che dentro il Presidente fossero presenti delle certezze inequivocabili circa la sua colpa. Sorrentino terminava il Divo facendo quasi ballare Andreotti al ritmo di Da Da Da dei Trio. Amelio conclude il suo bellissimo film facendo diventare il Presidente il vero sé stesso (e non il mitico sosia storico ovvero Pierluigi Zerbinati) dentro un simil-Bagaglino in cui si ride di lui attorno al suo flaccido corpo catatonico in carrozzina. Altro che amante. Quella è per il regista l'ultima immagine che il Presidente vedrà di sé.
Non partorita né da un magistrato, né da un giornalista, né da un politico avversario. Ma da lui.

Conclusione

È il più giovane dei grandi vecchi. Infatti è ancora tra noi. 75 anni il 20 gennaio prossimo. Prima di Guadagnino e Fasano già giovane entusiasta bertolucciano (suo doc del 1976 intitolato Bertolucci Secondo Il Cinema), grande cinefilo (Il Vizio Del Cinema e Un Film Che Si Chiama Desiderio tra le sue opere letterarie più compiute in questo senso), ammiratore manifesto di Moretti e Bellocchio (scelse il cognome del personaggio di Castellitto ne La Stella Che Non C'è in omaggio ai cognomi che vogliono dire qualcosa del regista de I Pugni In Tasca), viscontiano in uno dei suoi film più belli e meno ricordati come Così Ridevano, Leone d'Oro contestato a Venezia nel 1998. Ebbe la sincerità di ammettere il dolore che provò per i "cazzotti" presi sempre a Venezia con l'insuccesso in Concorso, quando era un big e quindi quasi da favorito, sia per Le Chiavi Di Casa (2004) che La Stella Che Non C'è (2006). Da quel momento in poi, ecco un leggero declino filmografico dopo la decade della stabilizzazione (gli '80) e quella della consacrazione (i '90) con Il Ladro Di Bambini (1992), L'America (1994) e, appunto, Così Ridevano (1998). Ora ci sembra interessante che uno dei suoi film più bellocchiani sia concretamente il più vicino all'ultimo Bellocchio de Il Traditore (2019). Sia perché c'è Pierfrancesco Favino in una grande prova (ma qui è addirittura più bravo che nel film di Bellocchio perché scomparendo come Favino davanti ai nostri occhi aiuta Amelio a raggiungere l'obiettivo di portarci dentro il Presidente), sia perché c'è la voglia di raccontare un grande personaggio della storia italiana. Ha lavorato con un budget estremamente risicato, rispetto ai fasti recenti di budget stellari per il cinema italiano come per quanto riguarda Il Traditore e Pinocchio, e ha realizzato la psicoanalisi del decadimento delirante di un maschio italiano di potere tipico del '900 arrivando, a differenza del dittico sorrentiniano Loro 1 e 2, a dire qualcosa di realmente significativo, e non ambiguo dal punto di vista ideologico, circa quella figura.
Un tempo ascoltavamo con ferocia Paolo Rossi che vagheggiava quella Hammamet dove lo immaginavamo ridere di noi.
Ora abbiamo visto che in realtà, era un luogo tristissimo di contraddizioni, rimpianti e scherzi macabri della mente.

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