Green Room e la separazione tra arte e artista | BadBuster

Il thriller di Jeremy Saulnier è anche un film che parla di musica, attitudine e nazismo, e risveglia turbe adolescenziali

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Oltre a essere uno dei migliori thriller-horror – più la prima che la seconda – degli ultimi anni, Green Room di Jeremy Saulnier è un film sulla musica. Non un musical né la storia di un musicista famoso, e neanche un film tipo Whiplash che parla dell’atto di suonare; Green Room è un film sulla musica, e sull’ascolto della stessa, come atto identitario e di definizione e collocamento sociale della propria persona, un film che dice che quello che ascoltiamo e quello che siamo e pensiamo sono spesso inestricabili tra loro.

In quanto tale, ed essendo un film dove il punk è buono e il black metal è cattivo, mi mette in una tremenda difficoltà.

La parte "ai miei tempi..."

Sono cresciuto frequentando un giro di gente del metallo molto legata a una definizione classicamente hard rock del genere – quelle persone che ritengono che i Deep Purple e i Black Sabbath con Dio alla voce siano più importanti dei Dead Kennedys e dei Minor Threat, e che non considerano degne di attenzione quelle band il cui cantante non ha un’estensione vocale di svariate ottave e il cui chitarrista non sa suonare Il volo del calabrone al doppio della velocità e bendato. Nel giro c’era poi un sottogiro legato invece a derive più estreme del genere, nello specifico quelle che arrivavano dalla Norvegia e dalla scena di Bergen e che sono state raccontate di recente in Lords of Chaos di Jonas Akerlund; erano “gli amici che ascoltano Burzum e i Mayhem”, che vedevano il power metal che tanto spopolava come fumo negli occhi ma che con il resto del gruppo condividevano un inspiegabile (a posteriori) fastidio per tutto ciò che era classificabile come “punk”.

Sono quindi cresciuto musicalmente immerso in certi pregiudizi e tenendomi studiatamente alla larga da una serie di cose che avrei poi ritrovato poco tempo dopo ascoltando con un po’ di orecchio critico quegli stessi dischi che, mi si diceva, con il punk non c’entravano nulla – puoi fare il metallaro purista quanto vuoi, ma arriva il giorno in cui scopri che gli Slayer hanno fatto un disco di cover punk-hardcore, e che ascoltare i Darkthrone è come ascoltare i Misfits con più distorsione e al doppio della velocità. Quello che al tempo non afferravo e che mi ci sono voluti ulteriori anni per capire era che il rifiuto verso un certo genere era più legato a questioni, come dicevo prima, identitarie e pure politiche che strettamente musicali – il punk era musica da zecche da centro sociale, non da guerrieri del metallo o figli di Satana che odiano il cristianesimo, la democrazia e l’omosessualità.

Ecco, la difficoltà a cui accennavo sopra è legata proprio allo stacco tra come suonava certa musica e quello che voleva dire indossare magliette dei gruppi che suonavano quella musica. Se da un lato infatti non mi ci volle molto a disaffezionarmi alle derive, chiamiamole così, neoclassiche del metallo, e a stufarmi di qualsiasi gruppo che vedesse in Ritchie Blackmore il Messia, dall’altro facevo una fatica del diavolo (appunto) a conciliare il fatto che il black metal fosse musica fatta da nazisti che parlavano di cose naziste ma che fosse così dannatamente (appunto) magnifico da ascoltare. E lo so, bisogna separare l’arte dall’artista e tutti quei ragionamenti che ben conosciamo, ma come si fa quando l’arte ti piace da morire e parla di cose deprecabili e ideologicamente all’opposto di dove ti collochi? Sono dovuto arrivare alla maggiore età per cominciare ad apprezzare punk e HC e a sentirmi finalmente a mio agio a cantare certi ritornelli, ma arrivato a 37 anni e a migliaia di dischi black metal ancora non ho del tutto risolto quest’ambiguità tra “questa è la musica migliore del mondo” e “questi che la suonano sono degli imbecilli”.

NSBM NSBM NSBM FUCK OFF

Green Room è un film che spinge fortissimo sul pedale di quest’ambiguità, scegliendo come cattivi un gruppo di persone che girano intorno al NSBM, il national socialist black metal, la frangia del genere più esplicitamente politicizzata e che ha preso una musica che all’inizio era figlia soprattutto di noia e disagio sociale ed era suonata da gente che prima che la galera avrebbe avuto bisogno di aiuto psichiatrico, e l’ha trasformata in un’arma di propaganda di idee pericolose e deprecabili. Se il black metal è fin dalle origini un genere ideologicamente discutibile, la frangia NSBM è invece impossibile da abbracciare a meno di non essere esplicitamente e irrimediabilmente nazisti, razzisti, misogini, suprematisti e una serie di altre brutte parole di questo tipo. Ed è quindi facilissimo prendere questa gente e trasformarla nei cattivi, e usare la loro musica per sottolineare le loro turpitudini.

Per contrasto gli Ain’t Right, la band protagonista che gira su un furgoncino tutto adesivi dei Fugazi e magliette dei Minor Threat, sono indiscutibilmente i buoni, come ben sottolineato nella scena migliore del primo atto di Green Room, quella in cui salgono sul palco del locale neonazi dove si svolge il film e attaccano una cover furiosissima di Nazi Punks Fuck Off. Considerate che un paio di scene dopo, mentre ci troviamo nel camerino che diventerà il centro di tutto il film, in sottofondo si sente War Ensemble degli Slayer, e mettete insieme questo concetto con quanto scrivevo sopra sulla mia adolescenza musicale: ce n’è abbastanza per farmi sentire in colpa e rinfocolare una confusione che non sentivo da vent’anni; i buoni ascoltano i Dead Kennedys, i cattivi ascoltano gli Slayer; i buoni apprezzano anche il pop, ai cattivi sanguinano le orecchie se dalle casse del locale non esce black metal; ed entrambi o gruppi godono nell’ascoltare musica che mi piace un sacco. Può una zecca da centro sociale ascoltare i Drudkh (tanto per dire un gruppo NSBM relativamente recente che ha scritto dei dischi magnifici)? Se canticchio NAZI PUNKS NAZI PUNKS NAZI PUNKS FUCK OFF come sto facendo in questo momento mentre ascolto la cover fatta dai Napalm Death sto in qualche modo insultando anche me stesso?

Attitudine > musica

Per fortuna Green Room ne fa in fin dei conti più un discorso di attitudine che di musica vera e propria intesa come note incise su un disco, per cui tutta la confusione e il senso di colpa provocati dal primo atto svaniscono nel momento in cui è chiaro che il film non vuole essere una guerra tra generi ma contrapporre quattro sbragatissimi punk a una rigidissima organizzazione di spacciatori nazi copincollati e guidati da un Patrick Stewart in versione “ragioniere dello droga”. E allora diventa più facile l’identificazione con “i buoni”, perché se è vero che non ho più l’età per vivere punk e girare il mondo su un furgoncino è anche vero che anche solo per nostalgia ed esperienza mi sento molto più vicino ad Anton Yelchin, Alia Shawkat, Joe Cole e Callum Turner che a un nazista pescato a caso dal gruppo. Nel momento in cui si spegne la musica e inizia il massacro, Green Room diventa un film ancora più punk di quanto non lo fosse già fino a quel momento, e tira fuori la zecca da centro sociale che ancora alberga in me.

Detta più brevemente, guardare Green Room – che, ci tengo a ribadirlo un’ultima volta, è uno dei migliori thriller-horror degli ultimi anni – per me significa identificarsi con il personaggio di Imogen Poots.

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