Green Book ha rubato l’Oscar a Roma, il miglior film sul razzismo di quell’anno
Analizziamo nuovamente la sfida agli Oscar 2019 tra Green Book e Roma. Due interpretazioni differenti di una stessa visione anti razzismo.
Perché Green Book non è per nulla un brutto film. Scorre liscio come un film d’altri tempi. Ha tutte le battute ben dosate e alterna le emozioni sempre nel momento giusto. Non una scena fuori posto. È come un vestito per tutte le stagioni, unisex e “uni età” che coinvolge tutti, grandi e piccini arrivando alla fine in un soffio. Solo che manca qualcosa di importantissimo: un'idea nuova, e magari scomoda, su uno dei temi più abusati al cinema. È infatti un film sul razzismo dove il viaggio del pianista Don Shirley nel sud degli Stati Uniti, in direzione ostinata e contraria, lo fa scontrare con un’intolleranza sistemica pazzesca. Quello che si ricorda di più è però che Green Book, alla fine, è anche una grande storia di amicizia. Perché questa è quella che funziona meglio.
Quanto ci ha fatto sentire buoni Green Book. Prima di tutto perché il processo di identificazione accontenta tutti senza dare fastidio a nessuno. Se non a quelle persone che, disgraziatamente, si identificano nelle comparse che, di tanto in tanto, mostrano ai due in viaggio quanto odio c'è in giro. Ma davvero qualcuno ha il coraggio di rivedersi in loro? Avventori del bar, camerieri, ricchi possidenti, sono macchiette definite solo dalle loro discriminazioni. Ignoranti senza alcun tormento, strumenti di trama utili solo ad esaltare il cambiamento di rapporto tra il musicista e il suo autista.
Il pubblico bianco (che era maggioritario anche nella giuria dell’Academy) che, verosimilmente, non ha mai subito atti di razzismo simile, si rivede - senza ammetterlo - in Frank. Un sempliciotto bonaccione che contrappone alla fredda razionalità del compagno di viaggio una calda voglia di fare a pugni. E diciamocelo: non c’è nulla di più soddisfacente che vedere un razzista preso a pugni da un energumeno che difende il suo amico-genio della musica. Quindi Green Book è una grande coccola all’ego. Perché conferma idea che se fossimo stati in quella stessa situazione… avremmo agito sempre per il verso giusto.
Green Book non è Indovina chi viene a cena? (anche se lo vorrebbe moltissimo) che invece non faceva sconti. Se lo si vede con onestà, il film di Stanley Kramer fa star male. Green Book al contrario, fa stare bene. È più vicino semmai a La forma dell’acqua dove la diversità è solo una convenzione, e l’odio viene solo dalla paura di chi non sa vedere. Va bene così, perché alla fine la storia del cinema è fatta anche di questi film così perfetti, studiati a tavolino in un equilibrio impeccabile, seppur poco incisivi sul lungo periodo.
Solo che quell’anno l’Oscar l’ha soffiato a un film che parlava delle stesse cose e molto di più e molto meglio. Uno che visto una volta resta per sempre dentro grazie alle sue immagini potentissime. Si tratta di Roma di Alfonso Cuarón ovviamente. Il poema semi-biografico si è battuto bene vincendo il premio alla regia, fotografia e miglior film straniero. Poca roba però rispetto alle aspettative iniziali.
Green Book sdoppia i suoi personaggi amandoli entrambi, Roma fa la coraggiosa scelta di erigere a eroe una figura spesso marginale al cinema. Cleo, la domestica di famiglia, da sempre presente nella casa che si muove però negli ambienti come un fantasma. Lei vive in disparte, sogna di prendere l’aereo e fuggire verso un luogo mai definito esplicitamente. Si capirà poi, sul finale, che quello squarcio di cielo attraversato dal velivolo è solo il desiderio di cambiare la propria condizione sociale. Nel Messico degli anni ’70 è impossibile, e Cleo lo imparerà a sue spese.
Roma non fa sconti a nessuno e, per contrasto, non li fa nemmeno a Green Book. Perché il nero Don Shirley viene accolto calorosamente a fine film da tutta la bianca famiglia Vallelonga. E vissero felici ed amici. A Cleo invece succede di tutto: resta incinta di un figlio che non desidera tra mille preoccupazioni economiche, lo perde rischiando la vita, entra in una depressione non riconosciuta dai suoi “padroni”. Un giorno sembra riscattarsi salvando i bambini a lei affidati durante una gita in spiaggia. Stavano affogando tra le onde del mare. Lei si butta e li porta a riva rischiando a sua volta la vita. In un abbraccio liberatorio tutti si stringono attorno a lei in una piramide di affetto in cui saltano tutte le barriere della classe di appartenenza.
Solo che poi il film va avanti.
Si torna a casa e tutto si rimette a posto come prima. Cleo non cambia il suo rapporto con la famiglia. Semplicemente si dimostra quello che è: uno strumento per il benessere dei ricchi. Vittima di una sudditanza che la schiaccia con una pressione incredibile che permea tutta la società dell’epoca. Anche a voler essere buoni, grati e accoglienti, il razzismo è una forza subdola di cui non ci si accorge. In Roma quasi nessuno degli spettatori vuole\può identificarsi con la donna, ripresa con oggettività nella sua complessità.
Quindi se ne esce scossi. Soprattutto si ammira quanto Cuarón abbia fatto un ritratto sincero di una figura chiave della sua infanzia, senza filtrarla per dire ciò che lo spettatore vuole sentirsi dire (e quindi rompe ogni visione naïf).
È Roma il miglior film di quell’anno? Forse, o forse no. Sicuramente non lo è Green Book, che con l’Oscar è diventato però l’espressione più significativa della nostra epoca. E quindi automaticamente interessante e avanguardista. Senza volerlo ha rivelato ciò che siamo diventati. Siamo in anni in cui vogliamo svelare le ipocrisie, cambiare le cose ed aggiustare il male. Non lo facciamo (non tutti per lo meno) perché guidati da un’alta idea morale. Lo facciamo perché quando succede ci sentiamo progrediti, liberi, molto più colti di chi ci ha preceduto. Green Book è così: un film che vuole fare del bene, ma in fondo solo per fare del bene ancora maggiore a se stesso.
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