Gran Turismo è carino ma "paracarro"

Gran Turismo è un “adattamento” un po’ codardo di un videogioco che d’altra parte non aveva altro modo di essere trasposto su schermo

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Gran Turismo è su Amazon Prime Video

E no, quello nel titolo non è un typo né uno scherzo dell’autocorrettore – piuttosto un modo per evitare la censura dei grandi capi di Badtaste, anche a costo di rinunciare a un titolo più incisivo per la SEO (forse, chi lo sa, nessuno sa come funziona davvero). Ma avete capito il senso, no? E se avete visto Gran Turismo forse concorderete con noi: si presenta come “adattamento di un videogioco” quando in realtà è un biopic dei più classici su un tizio che ha avuto una vita incredibile che incidentalmente c’entrava anche con la sua passione dei videogiochi. Il che è, appunto, un po’ quella cosa inespressa nel titolo.

In difesa di Gran Turismo

Va detto che la scelta di raccontare la vita e la carriera di Jann Mardenborough, che da gamer fortissimo a Gran Turismo è riuscito a diventare pilota professionista di più che discreto successo, era l’unica possibile nel momento in cui Sony ha deciso di “fare un film su Gran Turismo”. È lo stesso motivo per cui il recente film su Tetris non è in realtà un film su Tetris, era lo stesso dilemma che si pose al tempo per Battleship, il film su Battaglia navale. È più in generale il problema che si pone quando si decide di fare un film da un’opera che di narrativo ha poco o nulla.

E quindi come fare, se non cercare qualcosa di successo davvero e che sia in qualche modo collegato al franchise di cui la Produzione ha deciso di parlare, e scriverci un film intorno? Il caso di Gran Turismo è poi ancora più particolare perché ha circa la stessa fama di Football Manager, o di Flight Simulator: non è “solo un gioco”, è un’accurata simulazione di qualcosa che succede, circa in scala 1:1, anche nella realtà. E allora l’unica scelta possibile per fare “un film su Gran Turismo” è raccontare la storia di un tizio che l’ha usato come trampolino di lancio per la sua carriera. C’è poco da dire a Neil Blomkamp: sulla carta, la soluzione è elegante e perfetta.

All’attacco di Gran Turismo

Proprio questo fatto che si tratti di un film che parla di un gioco che non è solo un gioco (enfasi su solo) rende però Gran Turismo anche un film un po’ antipatico per chi ama i videogiochi: lo stesso protagonista ci tiene a ribadire di frequente che quello che tutti chiamano “il suo hobby” è in realtà una cosa seria, e in questo è implicitamente diversa da “tutti gli altri videogiochi”. È un film di sport che riconosce l’importanza tutto sommato della materia videoludica all’interno della sua narrazione, ma non la ama mai davvero.

E qui sta il paracarro: perché poi, esteticamente e anche acusticamente, Gran Turismo fa di tutto per strizzare l’occhio ai gamer, con un ampio e un po’ invadente uso di sovraimpressioni per indicare la posizione del nostro eroe e il percorso più rapido da seguire, salvo poi non fare neanche uno sforzo per approfondire il discorso. Il massimo di introspezione sul tema è il fatto che Jann si senta ripetere più volte che “la vita vera non è un videogioco” e che uscire fuori a tirare calci al pallone è più sano. E non c’è neanche un vero riscatto dell’animo gamer di Jann, se non forse sul finale: nel momento in cui firma il suo contratto con Nissan smette di essere un videogiocatore, e Gran Turismo diventa definitivamente un film sportivo molto classico.

Il potere della ripetizione

Classico, ma convinto in qualche modo di avere a che fare con un ideale “pubblico di Netflix” più che di quello da sala – il genere di pubblico che, vuole lo stereotipo, guarda il film con un occhio rivolto allo smartphone e la soglia d’attenzione a galleggiare poco sopra il limite di guardia. E quindi il genere di pubblico che ha bisogno che le cose gli vengano ripetute e rispiegate a ogni occasione: per essere un film di macchine, Gran Turismo fa un grande uso di parole e si fida molto poco delle sue immagini.

Che poi sarebbero anche degne di fiducia, poverine: le volte che si scende in pista e Gran Turismo smette di blaterare, le corse sono messe in scena con buon dinamismo e grande controllo dell’immagine, prive di confusione e sempre concentrate sulla spettacolarità del gesto – l’accelerata, il sorpasso, l’incidente. Ma vengono schiacciate dal resto del film, dalle infinite perle di saggezza di David Harbour, da Orlando Bloom che gigioneggia, dalla necessità di raccontare qualcosa anche sugli altri piloti. E il risultato è un film un po’ insipido, che non è chiaro chi possa fare davvero felice.

Cosa ne pensate? Diteci la vostra nei commenti qua sotto!

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