Gran Turismo è carino ma "paracarro"
Gran Turismo è un “adattamento” un po’ codardo di un videogioco che d’altra parte non aveva altro modo di essere trasposto su schermo
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In difesa di Gran Turismo
Va detto che la scelta di raccontare la vita e la carriera di Jann Mardenborough, che da gamer fortissimo a Gran Turismo è riuscito a diventare pilota professionista di più che discreto successo, era l’unica possibile nel momento in cui Sony ha deciso di “fare un film su Gran Turismo”. È lo stesso motivo per cui il recente film su Tetris non è in realtà un film su Tetris, era lo stesso dilemma che si pose al tempo per Battleship, il film su Battaglia navale. È più in generale il problema che si pone quando si decide di fare un film da un’opera che di narrativo ha poco o nulla.
E quindi come fare, se non cercare qualcosa di successo davvero e che sia in qualche modo collegato al franchise di cui la Produzione ha deciso di parlare, e scriverci un film intorno? Il caso di Gran Turismo è poi ancora più particolare perché ha circa la stessa fama di Football Manager, o di Flight Simulator: non è “solo un gioco”, è un’accurata simulazione di qualcosa che succede, circa in scala 1:1, anche nella realtà. E allora l’unica scelta possibile per fare “un film su Gran Turismo” è raccontare la storia di un tizio che l’ha usato come trampolino di lancio per la sua carriera. C’è poco da dire a Neil Blomkamp: sulla carta, la soluzione è elegante e perfetta.
All’attacco di Gran Turismo
Proprio questo fatto che si tratti di un film che parla di un gioco che non è solo un gioco (enfasi su solo) rende però Gran Turismo anche un film un po’ antipatico per chi ama i videogiochi: lo stesso protagonista ci tiene a ribadire di frequente che quello che tutti chiamano “il suo hobby” è in realtà una cosa seria, e in questo è implicitamente diversa da “tutti gli altri videogiochi”. È un film di sport che riconosce l’importanza tutto sommato della materia videoludica all’interno della sua narrazione, ma non la ama mai davvero.
E qui sta il paracarro: perché poi, esteticamente e anche acusticamente, Gran Turismo fa di tutto per strizzare l’occhio ai gamer, con un ampio e un po’ invadente uso di sovraimpressioni per indicare la posizione del nostro eroe e il percorso più rapido da seguire, salvo poi non fare neanche uno sforzo per approfondire il discorso. Il massimo di introspezione sul tema è il fatto che Jann si senta ripetere più volte che “la vita vera non è un videogioco” e che uscire fuori a tirare calci al pallone è più sano. E non c’è neanche un vero riscatto dell’animo gamer di Jann, se non forse sul finale: nel momento in cui firma il suo contratto con Nissan smette di essere un videogiocatore, e Gran Turismo diventa definitivamente un film sportivo molto classico.
Il potere della ripetizione
Classico, ma convinto in qualche modo di avere a che fare con un ideale “pubblico di Netflix” più che di quello da sala – il genere di pubblico che, vuole lo stereotipo, guarda il film con un occhio rivolto allo smartphone e la soglia d’attenzione a galleggiare poco sopra il limite di guardia. E quindi il genere di pubblico che ha bisogno che le cose gli vengano ripetute e rispiegate a ogni occasione: per essere un film di macchine, Gran Turismo fa un grande uso di parole e si fida molto poco delle sue immagini.
Che poi sarebbero anche degne di fiducia, poverine: le volte che si scende in pista e Gran Turismo smette di blaterare, le corse sono messe in scena con buon dinamismo e grande controllo dell’immagine, prive di confusione e sempre concentrate sulla spettacolarità del gesto – l’accelerata, il sorpasso, l’incidente. Ma vengono schiacciate dal resto del film, dalle infinite perle di saggezza di David Harbour, da Orlando Bloom che gigioneggia, dalla necessità di raccontare qualcosa anche sugli altri piloti. E il risultato è un film un po’ insipido, che non è chiaro chi possa fare davvero felice.
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