Gran Torino, il film di Clint Eastwood che andrebbe insegnato a scuola

Gran Torino parla di razzismo, integrazione, religione, ma soprattutto dell’importanza di ascoltare

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Gran Torino va in onda su Iris questa sera alle 21:00 e domani in replica alle 12:03

Adorato dal pubblico e dalla critica e inspiegabilmente ignorato dall’Academy, Gran Torino venne salutato nel 2008 non solo come un capolavoro ma anche come un manifesto e una confessione del suo protagonista e regista Clint Eastwood, un raro esempio di opera conservatrice che trattava con delicatezza e apertura mentale, ma senza tradire i propri principi, tematiche ancora oggi decisive negli Stati Uniti come il razzismo e l’integrazione. È senza dubbio la prima e più facile interpretazione di Gran Torino, ma è anche limitante: il ventinovesimo film da regista di Clint Eastwood (trentesimo, in realtà, se si conta anche Corda tesa, ma questo è un altro discorso) è una collezione infinita di spunti sociologici che vanno al di là del semplice rapporto di un vecchio reduce di guerra con i suoi vicini immigrati, e nel quale ogni scena meriterebbe di essere smontata e analizzata nel dettaglio.

Gran Torino e Walter Kowalski

Gran Torino è prima di tutto la storia di Walter Kowalski, veterano della guerra di Corea, ex operaio della Ford di Detroit (che in origine sarebbe dovuta essere Minneapolis, ma diventò Detroit per questioni fiscali, e qui e là il frettoloso cambio di location si nota) e, ahilui, fresco di vedovanza. Il film si apre con il funerale della moglie – un personaggio il cui fantasma aleggia per tutto il film e che avremmo molto voluto conoscere –, dieci minuti di imbarazzo tutto caucasico nei quali impariamo rapidamente (Eastwood è un uomo d’azione anche quando dirige) tutto quello che ci serve sapere su di lui. È in pensione, vive in compagnia di un cane di nome Daisy, passa le giornate sul porticato o a lavorare alla sua Ford Gran Torino, una macchina del ’72 che lui stesso ha contribuito ad assemblare. È l’unico bianco rimasto in un quartiere che negli ultimi anni si è popolato di immigrati da tutte le parti del mondo, e ovviamente li odia; ma, e questo dettaglio è decisivo e per questo viene svelato fin da subito, non li odia in quanto immigrati ma più genericamente in quanto esseri umani.

Walt tratta i suoi due figli e i suoi nipoti (in particolare l’adolescente Ashley) con lo stesso disprezzo che riserva ai vicini di etnia Hmong, e a buon diritto, visto che a loro volta la sua progenie lo tratta come un peso nella migliore delle ipotesi, e come un salvadanaio da spaccare nella peggiore. Mr. Kowalski, come chiede di essere chiamato dal prete locale (un “ventisettenne vergine sovraistruito appena uscito dal seminario” che prova a convincerlo a confessarsi) perché “non sono tuo amico”, è una persona diffidente, per natura e per esperienza, ed è soprattutto una persona che vuole essere lasciata in pace.

“Get off my lawn”, la catchphrase che Eastwood utilizza più spesso nel corso del film, riassume alla perfezione quanto detto finora: Walt Kowalski è una persona convinta che la tua libertà finisca nel momento in cui metti un piede sul suo prato senza il suo permesso, non importa che tu venga dall’Asia, dall’Africa o dalla periferia di Detroit. In questo senso, definire Gran Torino solo un film sul razzismo è limitante: è la storia di una persona che ha perso la fiducia nel genere umano, e il suo razzismo è solo una parte dell’insieme. Forse neanche la più rilevante: la sua prima reazione quando viene avvicinato da estranei di buone intenzioni (il prete prima, i vicini poi) è sempre quella di chiedersi “che cosa vorrà in cambio?”, e non è difficile immaginare che questo pregiudizio gli nasca dal rapporto con la famiglia, non da una qualche forma di razzismo.

Gran Torino prete

Gran Torino e gli Hmong

Dopodiché, il cuore del film sta nel rapporto tra Kowalski e la famiglia Vang Lor, incidentalmente capeggiata da una matriarca (Chee Thao, che come molti altri membri della famiglia era alla sua prima esperienza su un set) scolpita nella roccia tanto quanto Eastwood e altrettanto piena di disprezzo – e razzismo, anche più manifesto di quello del vicino – per qualsiasi cosa si muova, e nella quale spiccano le figure di Thao e Sue, che rappresentano la prima generazione nata in America dopo la diaspora post-Vietnam del popolo Hmong, e la prima a parlare sia lo Hmong sia l’inglese, e fanno dunque da legame tra la tradizione e la piena integrazione. Inizialmente Kowalski tratta la famiglia Vang Lor con fastidio e sufficienza, principalmente perché è convinto che siano di origine coreana (la maggior parte degli epiteti razzisti che rivolge loro nel corso del film nascono proprio durante la guerra di Corea); un tentato furto e il coinvolgimento sempre crescente di una serie di gang locali lo spingeranno a fare amicizia (o quello che per lui assomiglia a un’amicizia) con Thao e Sue e ad andare oltre le differenze culturali per costruire un ponte che unisce due culture.

Solo che non è esattamente così: Gran Torino non è un film che parla di comprensione reciproca a un livello più alto, di cultura appunto, ma di rapporti tra esseri umani che si sviluppano indipendentemente dal substrato. Quando viene invitato a casa dei Vang Lor, Walt li chiama “gooks”, un termine razzista per indicare gli immigrati del sud est asiatico: lo fa per abitudine, e l’implicazione è che continuerà a farlo anche dopo aver capito che la famiglia che gli abita a fianco è composta da brave persone che vogliono solo essere lasciate in pace, anche loro, a vivere la propria vita.

Sue

Una scena

È rivelatrice in questo senso questa scena nella quale peraltro Clint Eastwood riesce nel giro di tre battute a ricordarci perché recitare bene una scena drammatica non significa per forza urlare, strepitare ed esasperare ogni espressione facciale. Kowalski interviene per salvare Sue non per questioni culturali o razziali, ma perché è quello che farebbe ogni essere umano con un cuore nella sua situazione. E non approfitta del momento di superiorità (lui è armato, loro no) per prendersi alcuna rivincita, o per umiliare chi ha di fronte; semmai il contrario: Walt spiega al personaggio di Scott Eastwood che i tre che ha di fronte “non vogliono essere il tuo “bro””, ma vogliono solo, guarda un po’, essere lasciati in pace. E il fatto che l’uomo riversi una generosa dose di vetriolo non solo sui neri molestatori, ma anche sul bianco appropriatore culturale, conferma un’altra volta quello che abbiamo ripetuto finora: a Walt Kowalski non interessa da dove vieni ma chi sei e come ti comporti. E l’integrazione, non quella macroscopica e sistemica ma quella che porta un vecchio che vive in una periferia degradata a imparare a convivere con il melting pot, comincia anche da qui, dal comunicare con la persona che ti abita di fianco per scoprirne l’umanità, prima ancora dell’etnia o della cultura di provenienza.

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