Good Stories - La storia con i “se” di Mass Effect

Un viaggio nel sottotesto di Mass Effect, l’epopea di Shepard

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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articolo a cura di Lorenzo "Kobe" Fazio

Sono passati più di due anni e mezzo dalla pubblicazione di Mass Effect 3, capitolo conclusivo di una delle epopee più emozionanti e coinvolgenti della passata generazione di console. Vuoi per le prime notizie che iniziano a circolare intorno all’approdo della saga nella next-gen con il confermatissimo Mass Effec 4, vuoi perché volevamo inaugurare con il botto questa nuova rubrica dedicata alle trame più significative del medium videoludico, ci è sembrato giusto concentrare la nostra analisi su uno degli aspetti più delicati, intricati e criticati della produzione milionaria di Bioware: il finale.

L’intento della seguente indagine è semplice da spiegare: dimostrare come Director’s Cut, DLC che “aggiusta” il finale di Mass Effect 3, non solo rappresenti un’occasione mancata, ma un male da debellare se veramente si vuole far compiere al Videogioco quell’ultimo step che ancora gli manca per raggiungere la definitiva emancipazione.

La base di partenza è già critica e infastidirà buona parte dei lettori: bisogna dare per comprovata la famosa Teoria dell’Indottrinamento.

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Teorie confutate

Per chi non ne fosse a conoscenza, questa fantasiosa (e parzialmente confutabile) teoria vuole Shepard indottrinato dai Razziatori per quasi tutta la durata di Mass Effect 3. Gli strani sogni che di tanto in tanto disturbano il suo sonno, quelli dominati dalla presenza del bambino che non è riuscito a salvare sulla Terra, ne sarebbero una prova. La parte finale dell’avventura, che inizia a bordo della Cittadella e vede Shepard affrontare l’Uomo Misterioso che tiene in ostaggio l’Ammiraglio Anderson, altro non sarebbe se non una pura proiezione mentale, una gigantesca allegoria che simboleggerebbe la lotta del Comandante per la sua stessa vita e salvezza dal controllo dei Razziatori.

Letta in questo senso, la Teoria dell’Indottrinamento attribuirebbe un significato ribaltato alla scelta finale che compie Shepard: la Sintesi lo renderebbe simile agli Husk, gli zombie sintetici che ha combattuto a lungo, il Controllo sancirebbe il definitivo indottrinamento, mentre la Distruzione rappresenterebbe l’unica via di fuga, la ribellione dell’eroe al controllo mentale. Come prova definitiva a sostegno di questa tesi viene tirato in ballo il brevissimo video che segue la scelta della Distruzione in cui Shepard, sotto le macerie, contrae il torace dando prova di essere ancora vivo.

Lungi dal voler riassumere tutti gli indizi che suggellerebbero la Teoria dell’Indottrinamento (è sufficiente una veloce ricerca su internet per imbattersi in lunghe disamine in merito), come detto nell’introduzione all’articolo da qui in poi darò per appurato che sia comprovata: il Comandante Shepard era a tutti gli effetti sotto il controllo dei Razziatori; a bordo della Cittadella ha semplicemente lottato per riappropriarsi della capacità di decidere autonomamente. In questo vero e proprio viaggio con i “se”, diverse sono le cose che si sarebbero potute mettere in evidenza se e solo se Bioware, nel suo Director’s Cut, avesse confermato la Teoria, piuttosto che virare sul più consolatorio, ma semplicistico e mortificante abbattimento dei Razziatori.

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Avatar e marionette

Come già detto bisogna lavorare di fantasia, usare l’immaginazione: e se l’indottrinamento del Comandante Shepard fosse iniziato nel corso de L’Avvento, DLC del secondo capitolo dell’epopea che preannunciava l’arrivo ormai prossimo dei Razziatori? Perché non durante l’attracco alla nave dei Collettori da cui il nostro ha recuperato il Trasponder IFF, il segnale di riconoscimento che consentì alla Normandy SR-2 di varcare indenne il portale di Omega-4? Vogliamo esagerare? Esageriamo: il lento, ma inesorabile oblio verso il controllo mentale sarebbe iniziato su Eden Prime, esattamente quando il militare tocca la sonda Prothean.

Dando per veritiera quest’ipotesi, il senso del viaggio e della battaglia dell’equipaggio della Normandy cambia totalmente. Per meglio esplicarvi il mio punto di vista, voglio partire da una domanda semplice e insieme provocatoria: il più volte citato Araldo, invero apparso in Mass Effect 2, dove sarebbe nel corso della battaglia finale sulla Terra? Il campione dei Razziatori, minaccia delle minacce, viene solo nominato, ma mai inquadrato nelle varie scene d’intermezzo che precedono la conclusione. Semplice dimenticanza degli sviluppatori? L’ennesima prova di un finale raffazzonato e incoerente? Forse. Anzi: quasi sicuramente. Ma perché non fare un piccolo sforzo e concludere che in realtà l’Araldo altri non è se non l’avatar stesso che abbiamo controllato per tre episodi?

Niente panico. Analizziamo i fatti

In Mass Effect 3, Shepard si propone di unire la Galassia contro un nemico comune. Rende possibile la costruzione del Crucibolo, arma in grado di cambiare le sorti dello scontro, e promuove alleanze tra le specie per assemblare una flotta e un esercito in grado di contrastare le forze ostili. Apparentemente niente di strano: l’eroe sfrutta il suo carisma e il suo operato per far sì che l’unione faccia la forza. Cambiando punto di vista, tuttavia, viene fuori un’inquietante realtà: ha concentrato tutte le risorse di cui dispongono organici e sintetici. Vestendo i sinistri panni dei Razziatori il tutto si rivela tatticamente vantaggioso: perché combattere il nemico in una lunga ed estenuante guerriglia, quando si può risolvere buona parte del conflitto in unica, gigantesca guerra? Forti della loro supremazia tecnologica e memori del prolungato scontro che li ha visti coinvolti nel ciclo precedente, quello dei Prothean, i Razziatori potrebbero aver studiato questa nuova tattica, affidando a un eroe di comprovata tenacia, ma mentalmente controllato, il compito di riunire la maggior parte delle forze oppositrici.

Confusi? Non è tutto.

Facciamo un’altra domanda: perché Shepard riesce a persuadere qualsiasi interlocutore in qualsiasi situazione? Efferati omicidi, minacciosi terroristi, carismatici politici e semplici pazzoidi vengono ricondotti alla ragione dal nostro, spesso utilizzando argomentazioni poco convincenti o proponendo compromessi tutt’altro che vantaggiosi. La tentazione è quella di sciogliere il nodo nel modo più semplice: è un videogioco e si sa che i deus-ex machina abbondano. Eppure c’è qualcosa che stona. Un team di sviluppo in grado di creare un universo mastodontico, coerente e credibile, perché avrebbe dovuto accontentarsi di riempire la propria opera di situazioni risolte con fin troppa facilità e superficialità?

Anche in questo caso la risposta è inquietante: Shepard in realtà utilizzerebbe un indottrinamento di secondo grado per convincere i suoi interlocutori della correttezza dei suoi ragionamenti. Per i Razziatori infatti, l’operato del Comandante è doppiamente utile: convincere tutti della sua rettitudine e fedeltà, proseguire nella sua opera di concentramento delle forze attorno alla Terra. La prima attività è funzionale alla seconda e viceversa.

Da eroe onnipotente, in grado di affascinare chiunque e riuscire in qualsiasi impresa, Shepard si ritroverebbe ad essere una semplice marionetta controllata a distanza, portatore sano del germe dell’indottrinamento. La tematica dell’anti-eroe, tanto cara alla contemporaneità, verrebbe sostituita da una nuova e ancora più sconcertante: il falso-eroe.

Quella che all’apparenza è solo una forzatura narrativa, un compromesso necessario e tutt’ora insoluto per la maggior parte degli sceneggiatori videoludici, sarebbe in realtà una trappola finemente architettata e praticamente invisibile. Shepard non salverebbe la Terra: la condannerebbe e lascerebbe il videogiocatore con il fastidiosissimo dubbio che le piccole vittorie ottenute le abbia conquistate solo con la complicità e il benestare degli stessi nemici che pensava di combattere.

Oltre alla disfatta, la beffa.

In questo senso Mass Effect susciterebbe le stesse perplessità sul valore dell’eroe che altre opere contemporanee, da Watchman a Il Cavaliere Oscuro, hanno saputo efficacemente mettere in evidenza.

Volendo scavare ancora più in profondità si potrebbe anche concludere che i Razziatori non sarebbero altro che un’allegoria degli stessi sviluppatori, in un discorso meta-videoludico e autoreferenziale senza precedenti. Mass Effect diventerebbe un’opera che ironizza su sé stessa e su buona parte dei videogiochi moderni. L’enfasi data alle scelte effettuabili dal videogiocatore non sarebbe che uno specchietto per le allodole, un inganno che in realtà offusca l’unica verità: così come Shepard è condotto passo dopo passo dai Razziatori, il videogiocatore non può far altro che seguire, con piccole variazioni sul tema, un sentiero già precostituito da Bioware. La tecnologia potrà pure evolvere, ma si tratta ancora di andare da sinistra verso destra dello schermo.

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Considerazioni collaterali

Questa nuova visione su Mass Effect aiuterebbe anche a comprendere altri tre aspetti, tra loro interdipendenti, relativi alla progressiva trasformazione della saga attraverso gli episodi.

Il punto di partenza, scelto arbitrariamente solo per le sue più evidenti ripercussioni sul gameplay, riguarda il passaggio dalle origini action-RPG, proprie del primo capitolo, a quelle più dichiaratamente shooter di Mass Effect 3. Anche qui la questione è sottilissima e facilmente contestabile, ma potrebbe risultare interessante per certi versi. Generalmente i giochi di ruolo propongono trame che prevedono la salvezza di un regno, di un gruppo di emarginati, di un personaggio particolare. Similmente, all’inizio l’avventura di Shepard sembra proprio questo: una gigantesca battaglia per la Galassia. Contraria la situazione nell’ultimo episodio, dove diventa (o diventerebbe) chiaro il vero senso dello scontro: quello individuale ed egoistico per la salvezza di sé stesso. Ed ecco dunque spiegato il progressivo allontanamento dagli RPG e dalle meccaniche di gestione del party, ad appannaggio del genere degli sparatutto: maggiormente incentrato sull’avatar e sulla sua sopravvivenza.

Inerentemente a questo cambio di rotta in termini puramente ludici, vanno letti anche quelli meno visibili, ma altrettanto netti, ravvisabili nel comparto grafico e sonoro. L’art design abbandona le tinte ad acquerello che ci fecero innamorare della prima Cittadella, per appropriarsi di colori densi e di un tratto più deciso.

Per quanto concerne la colonna sonora, il mix tra sonorità elettroniche e fantasy, così particolare del primo capitolo ( di cui la canzone Vigil rappresenta un buon esempio), perfettamente contestualizzate nell’ambito RPG-action, vengono quasi totalmente cancellate da marcette militari (The Cerberus Plot basta per farsi un’idea) che rimandano all’anima più shooter di Masse Effect 3. Come contro prova è interessante l’ascolto di A Rude Awakening, tratta dalla OST di Mass Effect 2 che funge, come l’intero capitolo del resto, da ponte di comunicazione tra i due estremi.

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Conclusione

All’inizio del 900, Stanislavskij parlava per la prima volta di sottotesto di un’opera teatrale: tutto ciò che non era chiaramente scritto nella sceneggiatura, ma che il regista, attraverso il suo lavoro, aveva il compito di scovare e mettere in evidenza. A partire da quel momento non si metteva più in scena uno spettacolo: lo si interpretava. Fu grazie al lavoro teorico di Stanislavskij, con la complicità di altri precursori, che il teatro seppe fare un sensibile passo in avanti in senso artistico. Le possibilità di leggere e rileggere le stesse opere su diversi livelli regalò al teatro nuovi linguaggi e capacità espressive.

Il finale di Mass Effect, quello originale, faceva proprio questo: per la prima volta ha regalato al mondo videoludico una conclusione aperta, incerta, capace di far discutere e a lungo. Poco importa se la Teoria dell’Indottrinamento sia vera o meno: ha comunque invogliato l’utenza al confronto, a usare attivamente il medium al fine di trarne tematiche e ragionamenti originali, stimolanti, affascinanti.

Qual è allora il merito del Director’s Cut? Quello di averci regalato un finale sì consolante e di facile lettura, ma vuoto e in grado di cancellare qualsiasi sottotesto? È questo che vogliamo per il futuro del nostro medium preferito? Che si cada ancora nei soliti cliché, nelle solite storie fin troppo definite e inquadrate?

La solita epopea dell’eroe che vince contro tutto e tutti, pur al costo della sua vita, ha sicuramente il suo fascino, ma rimango convinto che Mass Effect avrebbe avuto un valore maggiore se ci avesse parlato del fallimento di un grandissimo uomo, raggirato e suo malgrado mosso come una pedina su uno scacchiere più grande di lui stesso. Non è del resto quello che capita spesso nella vita di tutti noi? Shepard avrebbe potuto essere un moderno Faust, ma l’insistenza di parte dell’audience lo hanno costretto a recitare nel più classico dei kolossal hollywoodiani: pieno di effetti speciali certo, ma privo di sostanza.

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