Gone Girl è misogino, misandrico, misantropo e pirandelliano
Gone Girl è un film apparentemente complesso da districare che si può però semplificare così: la gente fa schifo e il mondo è popolato da maschere
Gillian Flynn, autrice del romanzo da cui David Fincher ha tratto il suo Gone Girl, ha raccontato in un’intervista che, dopo aver letto le prime recensioni del suo libro, passò l’intera notte sveglia con gli occhi sbarrati ripetendosi “oddio, ho ucciso il femminismo, non volevo”. Mentre Flynn si disperava, altre recensioni ne lodavano invece gli aspetti più femministi, in particolare un monologo della protagonista Amy che è rimasto sostanzialmente intatto anche nell’adattamento cinematografico. L’apice di questo dualismo si è toccato forse con questo pezzo del Time, che dipinge non il libro ma il film contemporaneamente come un manifesto femminista e un’opera profondamente misogina. Da che parte sta la verità?
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A quasi dieci anni dalla sua uscita possiamo considerare Gone Girl cosa nota e non preoccuparci degli spoiler, ma se la cosa dovesse turbarvi fermatevi QUI e tornate dopo aver visto il film – è stato da poco caricato su Disney Plus, se non sapete dove trovarlo. Possiamo quindi dire senza paura che è un thriller che a un certo punto… be’, rimane un thriller, ma cambia le carte in tavola e soprattutto i ruoli delle persone coinvolte fin lì. Amy Elliott Dunne, la ragazza sparita del titolo, è perfetta almeno quanto la sua interprete Rosamund Pike: bella, intelligente, brillante, ricca e potente, protagonista più o meno involontaria di una serie di libri per l’infanzia con protagonista una bambina ancora più perfetta e ispirata a lei – o meglio alla versione di lei che i suoi genitori avrebbero voluto e che non hanno avuto per via di questo fatto increscioso che la gente ha anche dei difetti. È insomma la vittima perfetta in un film il cui scopo è dimostrarci perché invece è la perfetta carnefice.
È su questa sovversione delle aspettative – Gone Girl avrebbe funzionato altrettanto bene se Amy fosse stata davvero morta e il film ci avesse condotto per mano a scoprire la colpevolezza dell’apparentemente innocente Nick – che si basano tutte le critiche e i complimenti ricevuti dal film e da Flynn in particolare (che oltre al romanzo ha anche scritto la sceneggiatura) all’uscita del film. Dal punto di vista formale, estetico, più puramente cinematografico è impossibile dire qualcosa che non sia positivo riguardo a Gone Girl: come tutti i film di Fincher non sfiora la perfezione ma la sorpassa a destra, e non c’è una singola inquadratura o una singola sequenza che non valga la pena di essere conservata in un museo. Per cui l’unica cosa su cui ci si può concentrare per scrivere qualcosa di più di una valanga di lodi è la scrittura; e siccome Gone Girl è un film profondamente cinico e che non risparmia nessuno, chiunque può vederci quello che vuole a seconda di dove si concentra.
Sì, Amy è una vittima – di un marito che non la ama ma è troppo codardo per mollarla, di un matrimonio che l’ha strappata dalle sue abitudini e l’ha immersa in una realtà che non ha fatto nulla per accoglierla, delle convenzioni sociali che vogliono che ogni coppia sia speciale o quantomeno si senta speciale, sempre e comunque – “non siamo come le altre coppie” è una delle frasi ricorrenti nei lunghi flashback che punteggiano il film e che ci mostrano Amy e Nick quando ancora avevano senso in quanto coppia. E sì, Nick è un fedifrago, un bugiardo e soprattutto un egoista, sempre in cerca di un nuovo trofeo e incapace di prendere vere decisioni. Per cui in questo senso Gone Girl è un film che parla di una donna vittima del suo uomo e del patriarcato in senso più lato.
Ma Amy è anche carnefice, e per quanto si possa parteggiare per lei è innegabile che la sua reazione al tradimento di Nick sia, come dire, sproporzionata. E che questo la collochi in quella categoria che in inglese viene definita “crazy bitch”: la donna pazza e capace di tutto, che non capisce dove stia il limite che separa una sana vendetta da un reato federale. E soprattutto Amy è cresciuta sotto i riflettori e sa come gestire la fama, ed è lei, per quanto indirettamente, a indirizzare la narrazione del suo rapimento, e a spingere delicatamente la stampa e poi l’opinione pubblica a vedere in Nick un potenziale assassino. Amy e Nick, poi, sono ciascuno a modo proprio vittime del sistema dell’informazione e della stampa scandalistica in particolare: in un certo senso è il gossip il vero villain di Gone Girl, l’entità maligna che è la fonte di ogni problema sia per lui sia per lei.
E “gossip” è limitante: Gone Girl è anche un film che parla di peer pressure, dell’importanza dell’immagine, della necessità di essere, o per lo meno apparire, sempre all’altezza, sempre protagonisti di una vita che è una figata; è un film sui social quanto lo era The Social Network, ma d’altra parte è anche un film sul disagio di un’intera generazione quanto lo era Fight Club – solo che in Fight Club il disagio era conseguenza del tedio esistenziale, in Gone Girl della centralità dell’apparenza e della perfezione esteriore. È difficilissimo se non impossibile trovare un pezzo di Gone Girl che non abbia una qualche colpa e che non contribuisca attivamente al mosaico di cinismo e finti sorrisi che è tutto il film.
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Ed ecco spiegato anche il perché delle molteplici e contrastanti interpretazioni: sono tutte valide, perché sono tutte relative a una porzione di un tutto più complesso e dal quale nessuno emerge vincitore o innocente. Gone Girl è un film pirandelliano di gente che è costretta a vivere con addosso una maschera pena l’esclusione dal consesso civile; ed è un film che dice che questa gente non sono solo ricche socialite newyorkesi o affascinanti scrittori del Missouri, ma siamo tutti noi, ciascuno in misura diversa ma nessuno davvero immune. È un film che spiega che l’umanità fa schifo – non tutta allo stesso modo, ma davvero l’originalità conta qualcosa di fronte a una condanna del genere?