Glow e The Handmaid's Tale combattono in modi diversi la guerra della tv post-Weinstein
Sia The Handmaid’s Tale che Glow hanno reagito con forza al cambiamento nella tv post-Weinstein
Quella che sta per chiudersi è la prima stagione televisiva post-Weinstein, la prima cioè in cui sono andate in onda stagioni concepite (o finite di concepire o anche solo girate) dopo l’esplodere dello scandalo Weinstein, e quindi dopo l’emergere di movimenti come #metoo e Time’s up. Sia The Handmaid’s Tale che Glow hanno reagito con forza al cambiamento, si sono adattate in corsa e per prime hanno proposto stagioni decisamente in linea con il nuovo clima, cioè che riflettono con forza sui temi emersi dopo lo scandalo. Non sono le uniche serie ad averlo fatto ma quelle che hanno reagito con maggiore evidenza tra le più in vista.
Entrambe le serie erano nate con l’idea di raccontare le donne in maniera diversa o raccontarne, dietro metafore o analogie, lo statuto di cittadine di serie B. Erano insomma già quelle con il maggior grado di peso femminista sulle spalle, dunque anche quelle che più avevano da guadagnare (in termini di audience e gradimento) da un racconto più diretto di quelle idee (non va dimenticato che la televisione all’idealismo deve necessariamente abbinare il business, altrimenti non se ne fa niente). Del resto in questo nuovo clima per entrambe non è venuta a mancare la legittimazione degli Emmy (sono tutte e due front runner nella corsa ai premi con la loro prima stagione).
Violentissima nella trama e nelle intenzioni, la serie tratta dal romanzo di Margaret Atwood che racconta di un’America distopica in cui una dittatura fondamentalista cristiana ha preso il potere, relegando le donne ad ultimo anello della società (bestie da gravidanza per un paese che non riesce più ad avere figli, o angeli del focolare con molto cucito e lavoro a maglia cui badare) si è candidata a serie-bandiera del movimento. Dotata della medesima asperità delle accuse per molestie, dei giudizi sommari dei giornali sui carnefici e del giustizialismo che in autunno e inverno ha colpito durissimo executive, registi e attori che in passato o in tempi recenti avevano abusato di colleghe o dipendenti, Handmaid’s Tale 2 ha spazzato via quel poco di complessità riservata agli uomini.
Fred, il patriarca della famiglia dove risiede la protagonista, e Nick, il suo amante, sono diventati uno un villain a senso unico, svuotato della complessità e dell’ambiguità mostrata nella prima stagione, l’altro una spalla con pochissima rilevanza personale, non più una linea sentimentale e nemmeno un vero aiutante di June, non è un combattente né una minaccia. Nick sta lì.
Protagoniste assolute sono diventate le donne, che è molto comprensibile e coerente con gli sviluppi della prima stagione (per quanto dopo averci mostrato il marito di June in Canada nella prima stagione anche lui non è stato più esplorato), ma anche gli uomini che prima erano stati un po’ approfonditi sono diventati maschere.
Clamoroso è il caso di Issac, il guardiano innamoratosi della giovanissima Eden e con lei condannato alla morte per affogamento. Tra i due era la ragazza la parte importante della coppia, quella legata alla trama principale e soprattutto rilevante per l’analogia di The Handmaid’s Tale (le mille maniere diverse in cui in quella situazione, dunque anche nella nostra, le donne sono condannate), ma lui non ha avuto nemmeno una battuta, non ha avuto il beneficio di un po’ di empatia, non ne abbiamo pianto la morte (anzi, nessuno l’ha fatto), non aveva dei cari, non aveva nulla da dire, non aveva idee o opinioni su quel che stava accadendo. Di fatto è esistito perché non ci può essere una coppia o una storia romantica senza una controparte. In una serie maschile e maschilista di 10 anni fa il contrario non sarebbe mai accaduto, e questo perché The Handmaid’s Tale non mira all’uguaglianza ma a combattere.
The Handmaid’s Tale ha scelto per sé il ruolo più battagliero. Con l’atteggiamento di questa stagione si è schierato non tanto con le vittime di molestie quando con il loro desiderio di vendetta, replicandone specularmente i modi e l’ormai totalmente esaurita pazienza. Esaltazione e simbolo della tenacia e della capacità combattiva delle donne, June partorisce da sola e alla fine addirittura rinuncia a fuggire in Canada, preferendo (come Maeve alla fine di Westworld 1) rimanere sia per sua figlia, sia per combattere con le sue simili. Stufa di sperare in un cambiamento ha deciso che è ora di pretenderlo.
Al contrario non è stata questa la volontà di Glow 2, palesemente, sebbene anche questa serie si sia orientata in un più chiaro racconto della situazione delle donne oggi.
Fin dall’inizio la serie che racconta dei bassifondi dell’intrattenimento televisivo tramite un regista, un produttore e alcune attrici (?!) scalcinate che mettono in piedi un programma di wrestling femminile con budget insufficienti per tutto, ha messo in scena la produzione televisiva di un’era opposta a quella che viviamo, una più sgangherata in cui gli show televisivi erano marginali e artisticamente poveri. Proprio in quel contesto alcune donne cercano di fare qualcosa che non gli spetterebbe ribaltando gli stereotipi di gender anche a livello creativo e produttivo. Un’apoteosi di perdenti e marginali esaltate dallo show proprio per il loro essere strane e diverse, Glee senza la positività ma con uno squallore ammantando di lustrini.
Se quindi Glow è il classico ensemble drama sul posto di lavoro, iniettato di commedia, non diverso nell’impostazione da una serie classica come Grey’s Anatomy (solo più onesta negli odi e nei contrasti), in realtà lavora di fino per ribaltare ogni convenzione relativa agli anni ‘80 e alla rappresentazione dei rapporti tra uomini e donne in quegli anni per riflettere sul presente.
In Glow e specie nella seconda stagione i rapporti tra sessi sono ribaltati, sono le ragazze a scoparsi gli uomini, se li prendono quando vedono che sono pronti, non gli danno la caccia perché non imitano i maschi ma creano opportunità da cogliere per arrivare al loro obiettivo. Ben diverso da come venivano dipinti i rapporti all’epoca. Le ragazze di Glow muoiono per fare sesso e bruciano di desiderio, non disdegnando di rubarsi gli uomini a vicenda senza eccessivi drammi, eccezion fatta per la più tradizionalista di tutte, la bionda american barbie che dal divorzio in poi sta affrontando un percorso di liberazione dal modo in cui la società la vuole.
L’enfasi posta sul ribaltamento già basterebbe a dimostrare sia il cambio di atteggiamento, sia la diversità di approccio, ma Glow nella seconda stagione fa un passo in più e praticamente rimette in scena le situazioni di abuso sessuale descritte tante volte in occasione dello scandalo Weinstein. Ruth, il personaggio principale, viene convocata dal capo del network su cui va in onda il programma, proprio nel momento in cui lo show sta per essere spostato ad un orario più infame, quello in cui insomma sono maggiormente sotto schiaffo. Lei pensa ad un’occasione invece lui userà la sua posizione per provarci. Il dettaglio importante qui è che inizialmente viene mostrato come dovrebbe essere l’incontro (quando Ruth arriva vede che oltre al capo c’è anche un delegato di produzione e la cosa la solleva, perché non saranno soli) e solo poi, malevolmente, i due sono lasciati soli. Viene insomma mostrato precisamente il momento e la dinamica con cui chi ha del potere attira e si approfitta di una donna in una posizione che incute paura di scontentarlo.
Non ci sarà però nulla di violento né di bieco, solo molto squallore e grande delusione (oltre alle prevedibili conseguenze negative sul programma). Non ci sarà la durezza degli stupri di The Handmaid’s Tale ma un più pietoso senso di disprezzo e di ingiustizia. Non il livore ma il desiderio di cambiamento.
Ovviamente tra i due approcci non ce n’è uno più giusto dell’altro, del resto anche nel grande discutere che si è fatto e si continua a fare le posizioni riguardo il da farsi e come comportarsi ora non sono tutte uguali ma piene di sfumature. Queste due serie mostrano come la risposta al post-Weinstein, anche nelle produzioni, non sia univoca e quel che viene percepito come un movimento unico sia molto diverso al suo interno quanto a reattività, strategia di cambiamento e comunicazione con il pubblico (che non è certo composto di sole donne).