Gli Uomini d'Oro, di Vincenzo Alfieri | Bad Movie

Il Bad Movie della settimana è Gli Uomini d'Oro di Vincenzo Alfieri, noir complesso e intelligente ispirato a una mitica rapina alle poste del 1996

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Spoiler Alert
La nostra analisi de Gli Uomini d'Oro, di Vincenzo Alfieri, al cinema dal 07 novembre

C'era una volta...

Gianluca Maria Tavarelli. È tanto che non fa più un film per il cinema. Precisamente sono cinque anni, da quel 2014 di Una Storia Sbagliata (2015). Prima di diventare affidabile e prolifico in tv (Paolo Borsellino, Maria Montessori, Aldo Moro, Le Cose Che Restano, Il Giovane Montalbano), il regista torinese era esploso a fine anni '90 con il secondo lungo Un Amore (1999), melodramma lungo il corso del tempo diviso in capitoli tutti girati in piani sequenza prendendo ispirazione da Once More (1988) di Paul Vecchiali. Il film fu una piccola grande sorpresa di quell'anno lanciando Lorenza Indovina e Fabrizio Gifuni (candidati nel 1999 al David di Donatello come Miglior Attore e Miglior Attrice). Era un film indipendente, i cinefili massimalisti direbbero puro, prodotto dall'ottimo Gianluca Arcopinto (presente anche nel cammeo di un marito tradito per sostituire al volo il compianto Ennio Fantastichini) che all'epoca non ne sbagliava una lanciando Gaudioso, Nunziata, Cappuccio (Il Caricatore, 1996) e Gianni Zanasi (Nella Mischia, 1994). Dopo quel successone Tavarelli, come tanti registi prima e dopo di lui, decise di fare il film del salto commerciale affidandosi in produzione a Cecchi Gori e recuperando la storia del furto alle poste finito in morte violenta di Giuliano Guerzoni ed Enrico Ughini, ritrovati cadaveri dopo aver sgraffignato ben 0tto miliardi di vecchie lire durante la fine primavera del 1996, a Torino. Titolo: Qui Non È Il Paradiso. Era il 2000, tra i protagonisti figuravano Fabrizio Gifuni, ormai sempre più lanciato dopo il successo di Un Amore, e Valerio Binasco, appena portato al cinema dal teatro. Era come se i noir di Melville avessero incontrato I Soliti Ignoti di Mario Monicelli. Una storia triste al punto giusto di due criminali improvvisati, sostanzialmente travet alla ricerca del colpo della vita per sfuggire al tedio del ritmo di lavoro fantozziano. A proposito di ciò tutto è cambiato negli ultimi anni nell'immaginario collettivo italico ora che la cosiddetta generazione Z definirebbe i vecchi travet del posto fisso dei fortunati perché un lavoro, come nel caso di quei due postini, almeno all'epoca c'era. Infatti era una motivazione drammaturgica di tanto, tanto tempo fa. Non erano né cadute le Torri Gemelle né arrivata la crisi mondiale del 2008. Tutto sommato potevi ancora lamentarti se il tuo impiego ti deprimeva. L'immagine che ricordiamo di più di quel film? Il sogno di un paradiso esotico (Costa Rica) dove un torinese voleva scappare. Era un omaggio delicato di Tavarelli al sogno della silhouette di donna che ballava in riva al mare di Al Pacino in Carlito's Way (1993) di De Palma: quella ballerina che volteggiava su una spiaggia dove il suo ex criminale non sarebbe mai potuto arrivare per farle compagnia. Passano 19 anni e oggi Vincenzo Alfieri riprende la stessa storia di Tavarelli (quel colpo alle poste da parte dei due impiegati) per fare un film di largo consumo Lucisano + Rai Cinema diviso in tre capitoli, dal ritmo incessante, montato (da Alfieri stesso) non linearmente, con tre attori italiani importanti in ruoli diversi dal solito e un chiaro riferimento a Pulp Fiction, citato in due momenti chiave di pistolettate andate clamorosamente a vuoto e contenitori emananti luce metafisica + l'idea anni '90 del montaggio non consequenziale dentro il noir che Tarantino riprese da Rapina a Mano Armata (1956) di Kubrick. Alfieri dunque prende spunto dalla cronaca, si rifà a un capolavoro del 1994 e torna a raccontare gli anni '90, dopo 15 anni di revival anni '80 ancora non finito, come i pionieristici Torno Indietro e Cambio Vita dei Vanzina (2015), la serie tv Sky 1992-1993-1994 (2015-2019) e Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck.

Anni '90

Ve li ricordate? C'eravate? All'epoca ci sembravano più seri e sofisticati rispetto ai frivoli '80. Sia nella musica che nel cinema. Nel film di Alfieri torna la lira, la pensione (una parola che generazione Z e pure tanti millennials con contemplano nel loro vocabolario esistenziale) che con la Riforma Dini dell'8 agosto 1995 da retributiva si fa contributiva ("Tre mesi mi mancavano!" smadonna uno dei protagonisti che non può usufruire più del calcolo retributivo). Si vede il calcio in tv con commenti di Carlo Nesti (adda venì Sky e Dazn), nello specifico tante immagini di Juventus-Torino del 3 dicembre 1995. La Juve di Del Piero l'anno dopo è in semifinale di Champions League (la competizione aveva cambiato nome chiamandosi così dalla Coppa Dei Campioni nel 1992) con il Nantes il 3 aprile 1996 (e non si fermerà lì). Un biglietto della partita costa 70 mila lire, come dirà uno dei personaggi secondari coinvolti nella rapina al furgone portavalori purtroppo assente all'evento calcistico per via del giorno, proprio quello, scelto per il furto dai cosiddetti "uomini d'oro" (vennero ribattezzati così dalla stampa italiana). Alfieri ci ricorda nei dialoghi che c'era in porta nella Juve "Tyson" Peruzzi mentre un locale fuori città si chiama Balla Coi Lupi come il film di e con un mito dei '90 come Kevin Costner. In tv passa lo spot dell'Elisir San Marzano Borsci. Niente politica, per quella ci pensa la serie Sky. Una mercedes-benz SLC 500 guidata dal cattivissimo gangster Boutique parcheggerà con arroganza. È un film fatto di travet, strozzini bisessuali che fanno gli stilisti, ex pugili incarogniti, nordici repressi con due bypass che non possono avere l'amante solo perché: "Non me la posso permettere", immigrati meridionali insopportabili chiamati "zulu", sprezzanti juventini sudisti, sfigati torinisti, cielo grigio, disfunzioni erettili, vittimisti, terrificanti cori da stadio prima che come oggi si fischiasse per il colore della pelle dei giocatori ("Noi in Europa giochiam lontano / voi al massimo ad Orbassano / da troppi anni cercate gloria / solo Superga vi ha fatto storia"). Mai titolo poteva essere più ironico. È un'Italia ricoperta di cenere, dalla fotografia di Davide Manca color fumo metallizzato, brutta, sporca e cattiva quella che Alfieri, coadiuvato da Stasi, Aronadio e Sannio in sceneggiatura, racconta prendendo spunto dallo stesso fatto di cronaca che Tavarelli utilizzò nel 2000.
Ma quello era un film su due amici finiti nel giro sbagliato, questo un noir su tre conoscenti dall'odio facile.
Chi sono?

Playboy

Giampaolo Morelli è un querulo napoletano fastidioso e velleitario. Il suo Luigi Meroni quando parla ha l'innata capacità di poter irritare anche Gandhi. Aflieri voleva enfatizzare la sua cacofonica incomprensibilità dialettale ancora di più. Una scelta rischiosissima in un film che deve essere commerciale e non vuole i sottotitoli in base alle strategie del produttore Lucisano. Questo spilungone, re del sabato sera in discoteca come John Travolta nel classico di John Badham, soffre pure di disfunzioni erettili. Cercherà di fare un minimo di doppio gioco ovvero la cresta al bottino per premiare l'amico che ha sacrificato la fantomatica raccolta de Il Campionato, rivista sportiva inventata da Alfieri & Co. ispirata a L'Intrepido, in sostituzione a Topolino, usato nella realtà dai veri rapinatori nel 1996 per sostituire le banconote contenute nel portavalori. Finirà in un modo tragicomico insieme all'amico Luciano (bravo Giuseppe Ragone), come se ci trovassimo quasi dentro un cartone animato di Wile E. Coyote senza la rinfrancante nuvoletta vista dall'alto, in fondo al dirupo. Morelli, sempre molto a suo agio con smorfie, camminate e posture fin dai tempi di Piano 17 dei Manetti Bros, fa due o tre facce che valgono da sole il prezzo del biglietto.

Il Cacciatore

Quella di Alvise Zago è forse la figura delineata meglio. Non è solo un nordico razzista represso copia del Poiana di Andrea Pennacchi, nato dal celeberrimo video su YouTube su testi di Marco Giacosa (lì aveva gli occhiali). Zago ha una storia di complicità con l'ex pugile il Lupo con il quale ha contratto un debito devastante con il gangster stilista bisessuale Boutique (un Gian Marco Tognazzi sublime che forse avremmo voluto vedere di più). Fabio De Luigi in versione drammatica? Nasceva cattivo in commedia già in Tutti Gli Uomini Del Deficiente (1999) della Gialappa's Band diretto da Paolo Costella, poi era stato un assistente sociale drammaticamente fastidioso in Come Dio Comanda (2008) di Salvatores. Questa è la prima prova certa che può fare ruoli alternativi alla comicità. Complesso, lottatore, dolente, con un handicap fisico che ci porta quasi dalla sua parte. Credibile sessualmente e più intelligente del Lupo, con una quasi liaison sotterranea con la donna dell'amico che rende credibile la gelosia della moglie. È un personaggio scritto e interpretato benissimo.

Il Lupo

Edoardo Leo quando non parla è perfetto. Poi, al terzo dialogo, si sente l'accento romanesco. Ma è comunque un errore non schiacciante perché questo ex pugile dai capelli radi è un taciturno, con problemi di credibilità con la fidanzata aggressiva e insoddisfatta ai limiti dall'essere femme fatale. Ci piace da morire la ferita umida e non perfettamente cicatrizzata che ha sullo zigomo, quasi come se il truccatore avesse voluto rendere il senso di un ko subito cinque minuti prima dell'inizio del film. È lui il gestore del locale Balla Coi Lupi ed è lui che, come il Playboy, non rispetterà a differenza di Zago i patti del colpo. Il Playboy tornerà a dividere il malloppo con l'amico che aveva sacrificato la sua collezione di albi. Il Lupo voleva fottere sia l'autista napoletano lamentoso che il suo amico Luciano. Infatti Zago gli intima furente: "Dimmi perché li hai seguiti in moto!". Come Morelli anche Leo sa recitare bene con il corpo (derelitto, tutto piegato su stesso, seduto in disparte quando Zago riporta al locale "quella bagassa della Gina"). Molto interessante, in chiave melodrammatica, la chiusa del film con lui che va via con la fumantina Gina (una convincente Mariela Garriga; il personaggio femminile più efficace del film) dopo che lei ha addirittura ucciso per salvare la coppia. Quel viaggio in motocicletta con lei abbracciata stretta al suo uomo può far anche pensare al più romantico degli spettatori che quella relazione sentimentale così difficile e idiosincratica potrebbe addirittura decollare in un amore passionale da fuggitivi, proprio in stile Pulp Fiction (pensiamo agli adorabili Butch e Fabienne). Improvvisamente Lupo e Gina, se non innocenti, ci sembrano meno depravati e spietati di un vero bastardo come Boutique.

Conclusioni

Abbiamo ammirato il film per questo appartenere ai noir moralmente ambigui che ci piacciono, da Tarantino a Killer Joe (2011) di Friedkin. Il film non è esente da difetti. C'è un liscio clamoroso sparando con la pistola à la Pulp Fiction con la differenza che Tarantino faceva commentare ai gangster Jules e Vincent l'eccezionalità del fatto ("Un miracolo" secondo lo sconvolto Jules) creando complicità con lo spettatore (della serie: io so che tu sai che è strano). Qui dovremmo credere che Zago non riesca a beccare manco di striscio due tizi, di cui uno bello grosso come Luigi Meroni, a nemmeno tre metri da lui sparando più di un colpo (lisciava nel bosco all'inizio del film ma forse sono passati troppi minuti per ricordarcelo). Bastava anche almeno un bel colpo ricevuto al braccio di uno della coppia (votiamo Luciano) che il problema sarebbe stato risolto, giustificando anche l'inseguimento seguente (con una ferita al braccio puoi correre). Abbiamo fuori campo anche la separazione tra Lupo e Zago dopo quella notte decisiva, con il secondo che prende il malloppo. Sono problemi strutturali a un noir a cui mancano forse due scene per essere ancora più robusto. Eppure il film rimane estremamente affascinante per come riesca a mantenere il ritmo serrato (tutta la sequenza della rapina ha il giusto tono concitato e teso) con delle belle aperture sull'intimità dei protagonisti (Lupo e Gina über alles) senza dimenticare come sia riuscito a reinventare tre bravi attori già molto conosciuti presso il nostro pubblico.
Tavarelli aveva voluto portare la malinconia dentro il cinema di genere.

Alfieri ha diretto un action thriller adrenalinico estremamente godibile (110 minuti che volano) con insospettabili potenzialità sul fronte del dramma sentimentale, raccontando di uomini che oggi si riterrebbero fortunatissimi ad avere un lavoro anche se noioso.

Ma d'altronde... non sono più gli anni '90.

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