Gli spiriti dell’isola è un candidato agli Oscar che si racconta come divertente, ma è il più angosciante

Se con Gli spiriti dell’isola avete riso poco non preoccupatevi, significa che siete entrati nell'oscurità nascosta sotto l'ironia del film

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Succede che ogni tanto arrivano quei film che vengono presentati ai festival, sono sostenuti tantissimo dalla critica, trapelano online o in proiezioni limitate, vengono amati dal pubblico cinefilo, consigliati, e diventano l’opera da vedere assolutamente. Accumulano premi, candidature e il nome di “film dell’anno”. Poi, quando arrivano in sala, lasciano perplessi e spiazzati. Gli spiriti dell’isola è uno di questi e proprio l’amaro in bocca che lascia è parte del suo grande senso filosofico, della sua riflessione esistenziale e del tono grottesco che ha adottato. Una sensazione che non piace a tutti, poco esplorata al cinema, e per questo preziosa. 

Non bisogna sentirsi sbagliati se ci si trova in una sala che ride per i litigi del violinista Colm e il suo (non più) amico Pádraic, mentre si prova solo angoscia. Certo, il film qualche sorriso lo strappa, soprattutto nella prima parte, ma a tutti. Quel “tremendamente divertente” sbandierato in locandina fa sentire come se si fosse visto un altro film. Ecco, se avete provato la stessa cosa, state tranquilli, è assolutamente normale.

Martin McDonagh scrive benissimo, e si vede. Nella sua sceneggiatura ci sono due prospettive. Quella esterna ai personaggi, di distacco ironico, che prende atto dell’assurdità delle loro antipatie. È qui che si colloca chi ride a crepapelle. C’è contemporaneamente quella interna, empatica, vicina e totalmente aderente ai personaggi. Descrive la loro ansia esistenziale e, chi la fa propria, chi si identifica, non ha nulla da ridere.

Perché è candidato come miglior film Gli spiriti dell’isola?

Sin dalla proiezione di Venezia si era capito che Gli spiriti dell’isola sarebbe stato uno dei principali contendenti all’Oscar 2023. I motivi sono presto detti: Colin Farrell e Brendan Gleeson sono in stato di grazia, a caratteri invertiti dopo In Bruges, accompagnati da un magnetico Barry Keoghan. La scenografia è ripresa da una fotografia che rende tutto personaggio. Ci sono dei dettagli di statue, degli animali, del paesaggio che commentano con ironia (questa sì molto divertente) tutta la vicenda.

Ma la vera forza del film sta nella raffinatezza della sua scrittura. Colm, amico da una vita di Pádraic si stufa di lui, non vuole più parlargli di punto in bianco. Questo, piuttosto ignorante e logorroico, non riesce ad accettare la cosa e tormenta l’amico nel disperato tentativo di ricucire il rapporto. Il tema è quello del sentire senza ascoltare: sia Colm che Pádraic esprimono delle richieste ben precise. Il primo di essere lasciato in pace, il secondo di avere una spiegazione. Faranno esattamente l’opposto di quello che vogliono per tutto il film, innescando così un’escalation di violenza e di assurdità che coinvolge tutto il paese. L’isola di finzione di Inisherin, a pochi passi dall’Irlanda, sente i due borbottare e, in lontananza oltre il mare, gli spari della guerra civile nel 1923. 

Cosa significa Gli spiriti dell’isola?

Arriviamo quindi al motivo di perplessità per chi si aspettava un film da Oscar in senso classico, una di quelle storie ampie e facili per tutti (bussare a The Fabelmans per questo). Gli spiriti dell’isola è un film filosofico, quindi va valutato per la qualità delle domande che riesce a porre più che per le risposte che dà. Non ha un finale, al suo posto c’è un sospiro lasciato a metà. È un film esistenzialista. 

Colm recepisce cioè, come la filosofia a cui fa riferimento, la solitudine di fronte alla morte, l’insensatezza dell’esistere. È un’inquietudine tipica della corrente di pensiero nata dalle guerre mondiali e dal raggiungimento della capacità di auto annientarsi da parte dell’umanità. Allo stesso modo nel film c’è questo elemento scenico distante eppure sufficientemente vicino per colpire i personaggi. Sono i rumori delle battaglie, le conseguenze raccontate dalle persone. Colm sembra indifferente a questo ma non lo è. Diventa così un inconsapevole filosofo a modo suo.

C’è molta iconografia di Dio in quella cittadina: le immagini e i luoghi sacri sono centrali anche geograficamente. C’è anche un forte silenzio di Dio che piacerebbe a Bergman. Un’ansia perenne che si tramuta in angoscia per lo scorrere del tempo. La morte, anche se è distante, si avvicina in un tempo brevissimo per il cosmo. E allora cosa fare nell’attesa? Non bisogna sprecarlo, dice Colm, cercando disperatamente di creare un’opera che renda, se non eterna, almeno un po’ più lunga la sua memoria. 

Allora Gli spiriti dell’isola parla dell’insensatezza delle nostre paturnie, dei litigi e delle escalation che fanno male a tutti cercando il bene? Certo, ma allora perché resta la sensazione che tutto questo non sia tutto? Qui si trova il punto più raffinato di una scrittura scomoda. Spesso il cinema dà infatti una visione della vita da un’angolazione particolare. Questo invece ne prende almeno quattro (aggiungiamo Siobhán e Dominic o anche l'asina Jenny) e le distrugge ad una ad una. Nessuno sa passare il poco tempo che hanno da vivere nel modo giusto. Ci si tenta però nella maniera goffa che accomuna tutti gli esseri viventi. 

Ma alla fine il film com’è?

Potente, alle volte molto consapevole di sé, e sicuramente non per tutti. L’umorismo nero di Martin McDonagh e l’andamento del film richiedono un’adesione da parte di chi guarda, un piccolo sforzo che ripaga molto.

Non è immediato come Tre manifesti a Ebbing, Missouri, e nemmeno pulp e frizzante come i 7 Psicopatici, si avvicina invece ad In Bruges prendendo gli elementi caratteristici dei primi due. Ci si trova così di fronte a situazioni molto contrastanti: una fotografia delicatissima che inquadra mutilazioni, insulti che fanno ridere e momenti di silenzio da lacrime.

Se Gli spiriti dell’isola non aggancia nei primi 10 minuti il resto rischia per chi guarda di essere una faticosissima scalata senza soddisfazione. Si gioca tutto all'inizio.

Come si colloca rispetto agli altri candidati?

Gli spiriti dell’isola è un film da Oscar fatto e finito. Si colloca esattamente nella sensibilità di qualche anno fa (prima dell’ondata woke). Non va a pescare a culture distanti (posto che Hollywood crede - sbagliando - di sapere tutto della cultura Irlandese) e non offre una rappresentazione variegata. Un colpo di grazia per le possibilità di vittoria? Forse.

Che nostalgia, però, di film così. Capaci di usare un materiale molto semplice come due amici che litigano, espanderlo a dismisura solo con i dialoghi, e portare ogni comparto artistico al massimo ricavandone così un manifesto filosofico tridimensionale. 

È una storia di due adulti bambini. Un litigio infantile molto adulto. Prendere o lasciare.

Cosa resterà de Gli spiriti dell’isola dopo gli Oscar 2023?

Martin McDonagh non verrà mai ricordato come quello di 7 sconosciuti. Il suo nome è legato a In Bruges (per gli appassionati) e ai Tre manifesti a Ebbing,  Missouri (per tutti gli altri). Difficilmente Gli spiriti dell’isola resterà nell’immaginario come i precedenti due. Difficile come il suo titolo originale, The Banshees of Inisherin, avrà una seconda vita nei canali di videosaggi e nelle scuole di cinema molto di più che nell’immaginario collettivo. E va bene così.

In fondo, proprio come Colm e Pádraic anche i film percepiscono la propria piccolezza di fronte all’immenso mondo dell’arte. Gli spiriti dell’isola potrebbe avere trovato nei film studies un modo per essere tenuto in vita. 

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