Gli spietati, l’ultimo western di Clint Eastwood

Gli spietati è l’addio di Clint Eastwood al genere che gli ha regalato la fama, ed è un film perfetto

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Gli spietati va in onda su Iris questa sera alle 21:00 e in replica domani alle 11:43

Gli spietati è il miglior funerale che il western potesse desiderare.

Non stiamo dicendo che dopo il 1992, anno dell’uscita del film che Clint Eastwood dedicò a Sergio Leone e Don Siegel, non siano più usciti film western, né che quelli che sono usciti non avessero diritto di farlo; ma non c’è dubbio che, nel lungo percorso cinematografico del genere che forse più di tutti definisce l’America delle origini, l’equivalente statunitense dei poemi epici greci per noi, Gli spietati abbia segnato un punto di svolta, celebrando e decostruendo allo stesso tempo tutti gli archetipi, i simboli e i trope che l’hanno definito nell’ultimo secolo e oltre.

Gli spietati e i due tipi di cowboy

Come sostiene un altro western moderno (e profondamente teorico dietro la facciata classicista), Appaloosa di Ed Harris, esistono due tipi di cowboy: quello che a un certo punto si stufa di quella vita, mette radici, magari si sposa e si costruisce una famiglia, e quello che passa la sua intera esistenza a cavalcare solitario verso il tramonto. William Munny, il protagonista di Gli spietati (guarda il trailer) che ha ovviamente la faccia di Clint Eastwood, appartiene apparentemente alla prima categoria, o quantomeno si è convinto che sia così; e l’intero film è una lenta e sistematica operazione di decostruzione di questa sua convinzione, e la dimostrazione che da certi abissi non si scappa, e che una volta gustato il sapore del sangue è difficile farsi passare la voglia.

Da giovane, William Munny era un pistolero, fuorilegge e assassino, una di quelle figure mitologiche che durante la prima epoca d’oro del western erano dipinte come eroiche e che, dagli anni Settanta in avanti, hanno cominciato a venire tolte dal piedistallo e riproposte per quello che erano davvero: non eroi, non necessariamente cattivi, ma esseri umani, persone a tutto tondo con i loro toni di grigio e che abitavano un mondo dove ciò che è giusto e ciò che è legale non sempre coincidono. All’inizio di Gli spietati lo vediamo però impegnato in due attività che poco hanno a che fare con il suo status di icona; prima mentre seppellisce la moglie, cioè la persona che l’ha convinto a mettersi alle spalle il suo passato da pistolero e ricominciare (l’idea della moglie morta come spirito e ispirazione che aleggia su tutto il film non è una novità per Eastwood), poi mentre si rotola nel fango insieme ai suoi maiali: Munny è diventato un fattore, un cowboy di tipo 1, uno che ha dovuto arrendersi all’evidenza e ammettere che il suo tempo è passato per poter continuare a sopravvivere.

Gli spietati Eastwood

Gli spietati e la morte del vecchio West

Tutto ciò funziona anche in virtù della collocazione cronologica della vicenda di Munny: Gli spietati si svolge nel 1881, quando la ferrovia arrivava ormai quasi ovunque in America e il petrolio dominava il mercato, e quando non rimaneva quasi più nulla di “selvaggio” nel selvaggio West. È un periodo della storia dei cowboy che il cinema americano ha esitato a lungo a esplorare e che è diventato centrale dagli anni Settanta in avanti perché è il perfetto sfondo per storie moralmente ambigue e parabole all’insegna della decadenza; è il West morente nel quale Il Grinta diventa un’attrazione da Wild West Show, e nel quale una figura come Munny viene guardata con sospetto, relitto di un’epoca non solo passata ma che si sta cercando con tutte le forze di lasciarsi alle spalle, fatta di omicidi a sangue freddo, sparatorie in piazza a mezzogiorno e una generale sensazione di anarchia che all’inizio faceva rima con libertà e con il tempo è degenerata in caos puro e invivibile.

In questo contesto di neonata civiltà (nella città di Big Whiskey, dove si svolge gran parte del film, non si può entrare armati), Munny viene convinto da un ragazzino volenteroso e affascinato dal suo passato a tornare in azione per un ultimo colpo: le prostitute che lavorano nella locale sala da biliardo offrono una taglia di 1.000$ a chiunque uccida i due cowboy che hanno sfregiato una di loro, “colpevole” di aver ridacchiato di fronte alle ridotte dimensioni del pene di uno dei due. È la versione western del “Proprio quando credevo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro!” di corleoniana memoria; Munny accetta, ovviamente, perché ha due figli da crescere e gli fanno comodo i soldi, ma è rivelatorio il momento in cui si capisce che accetterà l’offerta: succede mentre sta guardando il Kid che si allontana a cavallo, e tutto il mondo di Gli spietati sta nello sguardo nostalgico di un Clint Eastwood con la faccia coperta di sterco di maiale.

Eastwood Freeman

Un film su Clint Eastwood

Perché d’accordo, Gli spietati parla di William Munny che fa giustizia, e di uno sceriffo pigro e indolente con un passato altrettanto discutibile, oltre che di altri residuati dell’epoca d’oro del West che fanno capolino per dire la loro sull’argomento; ma è anche, forse soprattutto, un film su Clint Eastwood. Sul Clint Eastwood western, ovviamente: una figura che ha contribuito a definire il genere prima da attore, facendosi cucire addosso su misura una serie di personaggi che sono diventati icone, e poi da regista, con tre capolavori come Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio e Il cavaliere pallido e quella stranezza quasi postmoderna che è Bronco Billy. Clint Eastwood non ha inventato il western, ovviamente, ma ne è diventato sinonimo quanto John Ford, John Wayne e Sergio Leone, con le sue due espressioni (con il cappello e senza, o con il sigaro e senza, a seconda della versione che preferite), i suoi occhi, ehm, di ghiaccio, il suo modo di strizzare gli occhi con infinito odio mentre alza lentamente lo sguardo sulla sua prossima vittima.

Il Clint Eastwood di Gli spietati riconosce tutto questo (Munny si porta dietro una mitologia sconfinata, e gli accenni che vengono fatti alle sue imprese si potrebbero usare come base per scrivere tre o quattro film), e si diverte a smontarlo pezzo per pezzo. Nei primi venti minuti di film vediamo Munny rotolarsi nel fango con i maiali, sparare a una lattina mancandola per sei volte di fila, lamentarsi del mal di schiena mentre si sdraia sotto le stelle, e soprattutto ribadire con convinzione che lui ormai “ha smesso”, riducendo la sua gioventù violenta a “cose che facevo perché ero sbronzo” e identificando nella moglie la figura salvifica che l’ha allontanato “dal whisky e dalla cattiveria”. Il suo status mitologico non interessa più a nessuno, se non a un ragazzino cresciuto nel mito di quella che era una volta l’America e che ora non è più: pur parlando delle glorie passate e del tempo che scorre impietoso, Gli spietati è un film privo di qualsiasi forma di nostalgia, e anzi sembra fare di tutto per smitizzare una serie di trope che il suo stesso regista si è caricato sulle spalle decenni prima, facendosene simbolo non ufficiale ma quasi.

Prostituta

English Bob e gli altri

Il resto delle figure che popolano il film servono come complemento a questa operazione di decostruzione. Ned Logan (Morgan Freeman), amico e partner di William Munny, impiega pochi secondi per decidere di tornare in azione “per un ultimo colpo”, e gliene servono ancora meno per capire che quella vita non fa più per lui; al Kid basta partecipare alla prima sparatoria per realizzare che la vita magnificata dallo zio Pete, colui che per primo gli ha parlato di Munny, non è più sostenibile, non nel 1881 almeno, non al tramonto di un’epoca.

Geniale ai limiti del meta-cinema è in particolare la figura di W.W. Beauchamp, biografo del noto cacciatore di taglie English Bob (un clamoroso Richard Harris che purtroppo non divide mai la scena con Eastwood), che lo segue ovunque per documentarne le gesta, basandosi sui fioritissimi e poco probabili racconti dello stesso Bob. La sua penna narra avventure mirabolanti e dipinge il pistolero come un eroe senza macchia e di specchiata moralità, proprio come ci siamo sempre immaginati i cowboy, ma l’incontro con lo sceriffo Little Bill Daggett (Gene Hackman) lo mette di fronte alla triste verità, alla differenza tra realtà e vanteria da saloon, tra quello che è successo e quello che permette ai tuoi libri di fare successo: non è difficile vedere nella sua reazione a questa rivelazione (cioè abbandonare Bob per diventare il biografo proprio di Daggett) una frecciatina, o una fucilata, nei confronti del mercato (e del marketing) e della sua insaziabile voracità – gli eroi saranno anche scomparsi, ma la gente che compra libri e fumetti ne vuole ancora, e quindi tanto vale mentire e abbellire.

Discorsi analoghi si potrebbero fare su ogni singolo personaggio che popola il film, che sfrutta il fatto di avere una struttura semplicissima e molto classica (non diremo “prevedibile” perché il termine ha un’accezione negativa) per proporre una carrellata di figure archetipali e confrontarle con il declino del Vecchio West, dalla prostituta saggia e intraprendente ai vicesceriffi spacconi: Gli spietati è (anche) un manuale e un riassunto del genere, diretto da un autore che ha contribuito a scriverne la storia. È una dichiarazione d’amore di Eastwood verso il genere, e anche il suo modo per dire: “Questo è tutto quello che ho imparato in questi anni: tenetelo e fatene quel che volete, io appendo gli speroni al chiodo”.

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