Ghostbusters II è un clone che non fa ridere, non un sequel

Il vero, grande problema di Ghostbusters II è che è praticamente indistinguibile dal primo film

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I primi due capitoli della saga cinematografica di Ghostbusters (quindi Ghostbusters – Gli acchiappafantasmi e Ghostbusters II) sono appena arrivati su Netflix, e siamo pronti a scommettere che entreranno presto nella top ten dei più visti sulla piattaforma. O quantomeno succederà al primo dei due , un film che definire “di enorme successo” è riduttivo quanto descriverlo come “amatissimo”; non siamo per niente sicuri che andrà altrettanto bene a Ghostbusters II, che già quando uscì al cinema fu uno dei più clamorosi casi di quello che potremmo definire “flop che in qualsiasi altra occasione sarebbe stato definito un successo”.

Ghostbusters II e il sequel che non s’ha da fare

È impossibile parlare di Ghostbusters II senza almeno accennare al motivo per cui Ghostbusters II esiste e per cui è andato molto vicino al non esistere. La storia produttiva del film è lunga, travagliata, documentata nel dettaglio in decine di libri, articoli e interviste, e, come spesso capita per le questioni di cinema, ottimamente riassunta su nientemeno che Wikipedia. È anche impossibile ormai dire qualcosa di nuovo su un film del quale si è discusso anche molto di più di quanto si discuta normalmente dei film problematici (le analisi e testimonianze sulla produzione di Ghostbusters II sono probabilmente numerose quanto quelle su Apocalypse Now), per cui ci limiteremo a ricordarvi fatti noti, o a riassumerveli se non ne sapete nulla.

La versione breve è questa: nessuno dei Ghostbusters (intesi come Dan Aykroyd, Bill Murray, Ernie Hudson e Harold Ramis) voleva fare Ghostbusters II: il primo film era nato come progetto a sé stante, ma ebbe un successo molto superiore alle aspettative e fece nascere un intero franchise, a partire dalla serie animata The Real Ghostbusters proseguendo con fumetti, videogiochi, persino romanzi. Questo convinse Columbia Pictures della necessità di un secondo film, nonostante le obiezioni dell’intero cast, Bill Murray in testa; il problema (per Columbia) è che i diritti del franchise appartenevano anche a loro, e il progetto richiedeva un’unanimità di intenti che per anni non si concretizzò.

Però, come dice un vecchio proverbio di Hollywood, “dove ci sono i soldi c’è una soluzione”, e nel 1988 i quattro si incontrarono con la produzione e decisero che i tempi erano maturi per Ghostbusters II. Aykroyd e Ramis si misero a lavorare alla sceneggiatura, e nel giro di un anno ne produssero una – che venne ovviamente rimaneggiata in seguito alle richieste della produzione, che voleva che il film non fosse solo il sequel di Ghostbusters ma facesse riferimento anche alla serie animata (come dimostra la presenza perfettamente inutile di Slimer), e avesse un tono più leggero e adatto a tutta la famiglia rispetto al primo capitolo. Il risultato di questo tira e molla creativo è quello che potete vedere oggi su Netflix.

Vigo

Ghostbusters II: la clonazione

Ed è un risultato che fece staccare 215 milioni di dollari di biglietti nel mondo a fronte di una spesa produttiva di 30, e fu l’ottavo maggior incasso del 1989 negli Stati Uniti. Nonostante questo, Columbia lo considerò un fallimento: un po’ perché l’originale ne era costati altrettanti ma aveva incassato quasi 300 milioni, un po’ perché Ghostbusters II venne demolito dalla critica, che lo descrisse come “stanco” e “una delusione” e “un film che non fa ridere”. Ed è vero: rispetto a Ghostbusters, il suo sequel addolcisce l’umorismo abrasivo per puntare su una comicità più digeribile (e pure sciocchina, si veda la scena in cui Sigourney Weaver scopre, diciamo così, la relazione tra Rick Moranis e Annie Potts), e dedica una quantità sproporzionata di tempo al rapporto da ricucire tra Peter (Murray) e Dana (Sigourney Weaver) e al di lei figlio, al quale viene dedicato un arco narrativo più completo di quello che hanno, per esempio, Ernie Hudson e Harold Ramis.

Potreste obiettare che non è corretto valutare un film paragonandolo con il predecessore invece che come oggetto a sé stante. È vero, ma il più grosso difetto di Ghostbusters II è proprio che non fa nulla per uscire dall’ombra del suo illustre genitore, del quale ricalca un po’ stancamente la struttura, beat dopo beat. Nessuno crede ai Ghosbusters; poi succede qualcosa, e tutti credono ai Ghostbusters; poi le autorità fermano i Ghostbusters, e intanto il male in città è libero di diffondersi; poi le autorità si rendono conto che solo i Ghostbusters possono salvare la città, e tornano a liberarli; poi i Ghostbusters trionfano e vengono accolti come eroi dalla città; da qualche parte qui in mezzo c’è un montaggio su base funky di loro che catturano fantasmi.

All’inizio Ghostbusters II doveva parlare di tutt’altro, stando a questo libro; doveva svolgersi all’estero e avere a che fare con la magia e le fate e i funghi magici. Invece le necessità produttive (leggi: fare felice il pubblico) riportarono tutto a New York e costrinsero Ramis e Aykroyd a scrivere un’altra storia cittadina. Certo, nel primo film il cattivo era Gozer e nel sequel è Vigo di Carpazia; e lo Stay-Puft Marshmallow Man di Ghostbusters diventa la Statua della Libertà nel II. Ma la struttura rimane quella, il percorso per arrivare alla vittoria è identico come identici sono gli ostacoli: più che un sequel, Ghostbusters II è un clone di Ghostbusters, e guardandolo non si può fare a meno di confrontarlo con l’originale – e vederlo uscire sconfitto.

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