Ghostbusters: il film al femminile di Paul Feig soffre di ansia da prestazione
Ghostbusters di Paul Feig non è il disastro che farebbero presagire i voti in Rete, ma non ha abbastanza coraggio da staccarsi dal modello di riferimento
Scrivere di Ghostbusters, il remake datato 2016 di un film di discreto successo con protagonisti alcuni comici di apprezzabile fama, significa automaticamente esporsi a quella che, traducendo letterale dall’inglese, potremmo chiamare “tempesta di sterco”, o se preferite “uragano di feci” o “temporale di escrementi”. È successo a Leslie Jones e alle altre protagoniste del film, figuratevi se non rischia di succedere anche a noi che siamo qui a spiegarvi perché dovreste (o non dovreste) vedere il film di Paul Feig che va in onda questa sera sul vostro televisore e altri device analoghi (ma non analogici). Non c’è modo di evitare critiche e insulti, anche da parti di chi magari il film non l’ha visto per una questione di principio, perché non concepisce come si possa andare a toccare un marchio sacro come quello di Ghostbusters sporcandolo con le istanze woke spinte dalla dittatura del politicamente corretto (come andiamo? L’abbiamo scritto giusto?) senza in questo modo rovinarlo.
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Le modifiche rispetto al film del 1984 sono relativamente poche. Le nuove Ghostbusters vengono anche loro cacciate da un’istituzione universitaria che non crede nella loro ricerca, e si mettono dunque in proprio – ma lo fanno in maniera sempliciotta, automatizzata e fin troppo citazionista. Il primo luogo che visitano dove stabilire la loro sede è una vecchia caserma dei pompieri, presto abbandonata perché costa troppo. Hanno problemi di soldi, ovviamente, come ce li avevano i Ghostbusters originali; ma la questione non viene mai davvero trattata, e le tre-poi-quattro galleggiano per tutto il film circondate da equipaggiamento costosissimo che non viene mai del tutto giustificato.
Trovano il primo fantasma e lo sconfiggono senza sudare (anche se Kristen Wiig subisce la prima di una lunga serie di “smerdate”). Intrappolano il successivo, e la questione del contenimento di un’entità spettrale viene prima presa in giro grazie a un tutto sommato inutile cameo di Bill Murray, e poi derubricata a retropensiero con una frase tipo “magari non passate più di un’ora in questa stanza se non volete perdere i capelli”. Il momento peggiore da questo punto di vista è probabilmente l’incontro con il sindaco Andy Garcia, chiaramente fatto per richiamare questa scena (al punto che Melissa McCarthy cita esplicitamente le “masse isteriche”) ma che serve solo a bruciare minutaggio prezioso: alle quattro viene intimato di smettere di parlare di fantasmi in pubblico… ma non viene impedito loro di lavorare, e nella scena successiva sono di nuovo in macchina a fare quello che facevano fino a cinque minuti prima senza grossi ostacoli.
Potremmo andare avanti a dissezionare scena dopo scena tutti i momenti in cui Ghostbusters si inchina all’originale e gli chiede quasi il permesso di esistere: il cameo di Dan Aykroyd che dice “I ain’t afraid of no ghosts”, il ritorno di Stay Puft e il suo nuovo meta-upgrade, la origin story del logo del gruppo… tutto quanto, però, messo lì per soddisfare la nostra presunta sete di nostalgia, non perché sia funzionale al film. Anche perché il film stesso non ne ha bisogno: come già dicevamo nella nostra recensione, dove il primo Ghostbusters era un film d’avventura nel quale quattro nerd si trovavano a combattere contro l’apocalisse, il film di Feig è una parodia, un’opera costruita sulle battute fulminanti (poche, a dire la verità), sugli scambi rapidissimi tra McCarthy e Wiig (molti e tutti ottimi), su Kate McKinnon che fa la matta (ma non è chiaro perché, visto che di lei, come di tutti gli altri personaggi, sappiamo pochissimo)…
Non è un problema in assoluto, ma lo diventa quando lo spirito umoristico di Feig si prende la scena (cioè quasi sempre) e soffoca tutto il resto: i fantasmi esistono come generatori di battute più che come entità misteriose e minacciose, e anche la retrotecnologia delle Ghostbusters, che qui hanno un arsenale rispetto ai loro predecessori, sembra più che altro una scusa per proporre gadget poi rivendibili in forma innocua. Anche perché Feig sa fare tante cose bene, ma girare le scene d’azione non è una di queste: le rare volte in cui Ghostbusters smette di essere una commedia brillante sono anche quelle in cui si prega il film di tornare sui suoi passi.
È un peccato che un film che avrebbe potuto staccarsi dal modello originale e aprire una strada tutta sua (e le intenzioni c’erano, come dimostra il namedropping di Zuul proprio sul finale) sia invece così asservito al suo modello, senza peraltro capire fino in fondo cosa lo facesse funzionare. I disastri sono altri, ma anche sforzandoci ci vengono in mente pochi esempi di “occasione sprecata” più perfetti di Ghostbusters.
Trovate tutte le informazioni su Ghostbusters (2016) nella nostra scheda del film!