Gemini Man è il giocattolo privato che piace ad Ang Lee e Will Smith, ma non allo spettatore
Gemini Man non funziona. Ma forse non era questo il suo intento. Il film è un divertimento privato per Ang Lee che sperimenta ma non conquista
Giusto pochi giorni fa Douglas Trumbull tirava le orecchie ad Ang Lee. Sosteneva di avere cercato in ogni modo di avvisare il regista dei pericoli dell’HFR: la tecnica di ripresa e proiezione che porta il numero di fotogrammi a 120 al secondo. Dopo Billy Lynn: Un giorno da eroe, Lee aveva puntato per Gemini Man sul sistema MAGI sviluppato proprio da Trumbull. In un film che gioca tutto sull’idea di visione (attraverso il mirino, nello specchio, ma anche guardare se stessi dall’esterno) l’alto numero di fotogrammi processati al secondo era una scelta sensata.
È lo stesso processo per cui consideriamo più vero ciò che viene ripreso da una sgranata lente di un cellulare che da una videocamera in altissima definizione.
Ang Lee non ha seguito il suo consiglio.
E forse è questa la più importante cifra stilistica del film. Cerca la realtà, ma trova la finzione. Vuole essere plausibile, concreto, con i piedi per terra, ma si trasforma nel terzo atto in un assurdo scacciapensieri fantascientifico.
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In Gemini Man c’è tutta la crisi di mezza età di Will Smith, non più golden boy di Hollywood, ma padre appassionato. Non è tanto diverso da After Earth a ben guardare. Lì Smith e figlio (Jaden) dovevano affrontare i mostri di una terra futura. Un survival fantascientifico in cui l’emozione finale - scarsa - era delegata al ritrovato rapporto tra il padre e il suo bambino oramai diventato uomo.
Ang Lee riprende il terrore dell’acqua di Shyamalaiana memoria (completamente inutile ai fini della trama) e trasforma una facile metafora dell’affrontare i fantasmi del passato in un simbolo della paternità.
Will Smith è Henry, un cecchino infallibile, un soldato tradito e in fuga, braccato dal proprio clone più giovane.
Una trama non originale, ma sicuramente affascinante che il film cerca in ogni modo di buttare via. E ce la fa perché la dinamica interessante tra Junior ed Henry si attiva troppo in là nel film e procede appesantita da una filosofia terra terra. Il soldato vive dilaniato dai sensi di colpa per le vite che ha tolto durante la sua carriera. Vorrebbe tornare all’innocenza del passato. Ed ecco che si presenta nel vetro del suo mirino letteralmente la sua copia giovane.
Un regista come Ang Lee poteva lasciarsi passare accanto la tentazione del paternalismo, ma Will Smith (voce impossibile da ignorare quando i film di cui è protagonista superano un certo budget) no. Anzi, per tutto il film recita come se il suo personaggio fosse immacolato. Nessun peccato del passato da espiare, solo una grande saggezza da insegnare. L’esperienza di vita da tramandare. Quella maturata “sul campo”. Non come i giovani senza macchia, ma imperfetti e pronti a sbagliare.
Dal tema del doppio Gemini Man passa subito a quello dell’eredità. Il Will Smith “giovane” è allora chiaro segno dell’immortalità dell’attore. Quasi a dire: rimpiangete l’attore di Willy, il principe di Bel-Air e Men in Black? Non fatelo, perché la versione di cinquantun anni è migliore. E non solo, potete avere anche quella giovane, senza che una ceda il passo all’altra!
Il fatto che Henry non muoia è poi un problema narrativo non da poco. Nel mondo coesistono originale e clone. Il vecchio ha inoltre un sottile interesse erotico nei confronti della spia Danny Zakarewski. Il giovane apparentemente no, ma sarebbe anagraficamente più vicino all’età della donna (Mary Elizabeth Winstead, che la interpreta, è dell’84). L’intreccio non si risolve sul finale, restando ambiguo.
E i fantasmi incarnati da Junior? Senza la morte di uno dei due, l’intero sviluppo del personaggio fa cadere il discorso sul passato. Il protagonista non convive con il sé giovane, non accetta ciò che è stato, ma si mette a guidare, a crescerlo come un figlio!
Ci fosse stato Jaden Smith al posto della versione ritoccata in CGI dell’attore non sarebbe cambiato molto. E se il clone fosse stato semplicemente un figlio mai conosciuto (ma con gli stessi talenti), il film non sarebbe cambiato molto.
Da qualche parte, nella mente di qualcuno, c’è una versione gemella molto migliore di Gemini Man, ma non è quella che abbiamo visto noi. Nella prima stesura, ad esempio, scritta negli anni ’90 il protagonista sarebbe dovuto essere Clint Eastwood. L’uomo dalle mille vite, nel pieno della sua seconda età. Quanto avrebbe avuto più senso!
Tony Scott era stato contattato per dirigere il film, ma era troppo complicato da realizzare con la tecnologia a disposizione e il trattamento fu archiviato. Quello che è nato come un film d’azione è poi diventato un dolce goloso divorato dalla sua star (che ha lasciato ben poco del divertimento al pubblico). E anche uno strumento per Ang Lee per sperimentare con la tecnologia. Distratto dalla tecnica si è però disinteressato alla tenuta della tensione di Gemini Man. L’azione è piatta, svogliata. È tragicamente ironico che nonostante la ricerca di plausibilità, l’unico momento “esplosivo” in cui ci sono persone che scappano nella città durante la lotta, sia un’esercitazione.
Gemini Man fallisce soprattutto nel raccontare la fuga. Aveva a disposizione lo strumento di tensione per eccellenza: un personaggio tradito, che sa di non potersi fidare di nessuno. Ma il film manca di comprimari, di personaggi secondari interessanti e ambigui. Il “vecchio” saggio ha molti amici, trova solo alleati nella sua via. Il giovane ingenuo invece è manipolato dai cattivi. Una volta capito questo (e la sceneggiatura di David Benioff fa di tutto per segnalarlo) crolla quella sottile sensazione del pericolo alle spalle. Quello scrutare nei vicoli bui e quella corsa disperata per diventare un “nessuno” e disperdersi dalla folla che ha reso grandi molti altri film.