Gatta Cenerentola è il primo film italiano a raccontare il Ghost in the Shell
Non solo la tecnologia in Gatta Cenerentola non è, come in tutti gli altri film italiani, un problema, ma è anche permeata da uno spirito schierato
Che il nostro paese abbia delle questioni irrisolte con la tecnologia è evidente a tutti, non serve la sua totale assenza dai film per ricordarcelo. Come del resto a ricordarci la maniera in cui è vista dalla maggior parte delle persone non serve il fatto che quelle rare volte che è presente nei film serve per rendere ridicolo un personaggio (sempre attaccato a questi "cosi stupidi"), serve per liberarsene e finalmente vivere la vita vera (finiti in un paesino di provincia dove non prende il cellulare o internet non arriva, i luoghi autentici) o serve per creare problemi, per mettere in crisi povere e brave persone, per ingannare, truffare e rappresentare tutto quello di nuovo e pericoloso esiste.
Gatta Cenerentola invece scavalla il dibattito sulla tecnologia (espressione che in sé presuppone che ci sia qualcosa che non va e che va arginato) e racconta una storia tradizionale, per l’appunto la Cenerentola di Basile (quella in cui la protagonista non lava le scale e basta ma uccide la prima matrigna, si impone, lotta in una nave arenata nel porto e ha una personalità più attiva che remissiva), utilizzando la cornice della fantascienza. Sarà forse perché in Italia non si fa fantascienza che non è mai capitato di vedere un film come questo, in cui esiste uno spirito dentro la macchina, in cui la tecnologia sostituisce la magia come prodigio ed elemento salvifico, e nella quale sembra che quello delle macchine sia un piccolo mondo parallelo alla narrazione.
Una volta ucciso il grande ingegnere che ha creato tutto all’inizio della storia la nave è conquistata dalla Camorra e quando saltiamo a diversi anni dopo questa versa in condizioni disastrose. Spaccata a metà, con lo scafo riempito di cadaveri ammassati, è sostanzialmente un night club/bordello, in cui persistono gli ologrammi, ormai incontrollati e tollerati da tutti come una presenza normale, in fondo quasi rassicurante.
Lungo tutta la terribile notte in cui si svolgono gli eventi del film gli ologrammi compariranno, rievocando scene dal passato che abbiamo visto o altre che non abbiamo visto, con un certo senso del drammaturgico, mostrando la cosa giusta al momento giusto. Nessuno lo dirà (e cosa più bella ancora: nessuno si stupirà) ma è come se la tecnologia che anima la nave avesse dentro di sé uno spirito. Non tanto un’intelligenza ma qualcosa di più emotivo e sentimentale, di misterioso e indefinito. Come se fosse la nave stessa a contenere l’anima del suo creatore, come se avesse un ultimo legame con la sua famiglia e prendesse uno schieramento al loro fianco.
Il paradigma è quello giapponese, quello animista, che immagina uno spirito anche nella tecnologia, che si interroga su che ruolo possa questi avere, essendo agita da quello che traduciamo sempre come “ghost” ma che è qualcosa di più simile alla nostra anima (che tuttavia è un concetto cristiano dunque estraneo alla cultura shintoista). E il ruolo alla fine, è quello del cinema e dell’audiovisivo in generale. “La nave ci osserva, ci registra, ci rielabora e ci rimette in scena” dice il suo creatore, osservare e registrare qualcosa e riproporne delle parti per enfatizzare e sottolineare qualcosa di quella realtà, l’arte del cinema, che racconta una storia plausibile per dire qualcos’altro, per mettere la lente d’ingrandimento su una certa lettura della realtà.
Nulla di cui sorprendersi in fondo per chi ha visto il precedente lungometraggio di uno dei realizzatori del film, Alessandro Rak, intitolato L’Arte Della Felicità. Lì già era evidente come un certo spiritualismo orientale non sia estraneo alla sua formazione o ai suoi interessi, come lo era la sua bravura nello scrivere storie di contrasti familiari, in cui i dialoghi sono asciutti e taglienti e i personaggi hanno lo spessore delle persone. E quindi non stupisce nemmeno che Gatta Cenerentola getti un piccolo indizio nel territorio dell’identità (il vero quesito che la fantascienza si pone da decenni) quando fa dire al creatore “Lei crede di essere di essere qui adesso e invece magari è solo un ologramma sbiadito, un vecchio ricordo che galleggia nel suo futuro”.
Gatta Cenerentola non solo presenta alcuni degli scenari distopici migliori mai realizzati in un film italiano (non era difficile), non solo ha la capacità di creare l’atmosfera giusta, quel senso di disperazione umana che è l’esatto punto di incontro tra fantascienza e noir, ma come già si è ampiamente scritto per Lo Chiamavano Jeeg Robot, ha anche la capacità di attingere ad un genere che culturalmente ci è distante (l’anime sci-fi) per fare qualcosa di incredibilmente nazionale: riraccontare Cenerentola secondo la nostra mitologia, quella di Basile e delle figlie che uccidono le matrigne.
Certo la sua storia è molto breve e nel finale sbrigativa, ma l’idea di ambientare tutto in un’unica notte gli dona coerenza, tuttavia l’invenzione visiva di questo retrofuturo anni ‘30, del camorrista che sembra un gangster della New York di Al Capone e di un mondo in cui non solo gli esseri umani sono criminali o prostitute ma in cui le donne sono disegnate per essere gli oggetti sessuali che la trama li obbliga ad essere, sono esattamente quello che pretendiamo di avere dall’animazione più seria e che mai avremmo pensato di chiedere a quella italiana. Invece da ora è un nuovo standard grazie a Mad Entertainment.