Galline in fuga: la resistenza spiegata un fotogramma alla volta
Galline in fuga è un film che si modifica con l'età in cui lo si guarda. Una commedia slapstick contro le autorità e un film di guerra.
All’inizio del 2000 l’animazione si divideva in tre: c’era quella tradizionale, di cui si iniziava a vedere il tramonto. Quella digitale, che la stava soppiantando. La clay animation, l’animazione a passo uno della plastilina; la più dispendiosa delle tecniche, la più assurda e rischiosa. Il vantaggio? Un fascino senza tempo, un invecchiamento negli anni praticamente nullo. La CGI bastano un paio di anni per farla apparire obsoleta. Il tratto a matita cambia insieme alla sensibilità generazionale. L’animazione in stop-motion resiste infinitamente di più. Così la Dreamworks Animation, alla ricerca di idee e di identità, decise di finanziare un piccolo studio indipendente inglese, la Aardman Animations, per realizzare il primo lungometraggio: Galline in fuga.
La grande fuga o una commedia slapstick?
La migliore animazione per bambini contiene sempre all’interno due film. Il primo, visto con gli occhi di un piccolo spettatore è una commedia slapstick a tinte dark contro le autorità cattive. C’è una fattoria e un pollaio. La proprietaria, dal fisico magro e nervoso, con la faccia spiritata, costringe le galline a produrre le uova. Quando non possono più farlo le uccide. Insoddisfatta dei risultati economici rilancia la sua produzione convertendola in una piccola fabbrica di pasticci di pollo su larga scala. Una sera il gallo Rocky Bulboa piomba dall’alto nel recinto, grazie a lui le galline hanno l’ispirazione per tentare un ultimo, disperato, tentativo di fuga.
Sin dall’inizio Galline in fuga filma, senza dialoghi inutili, un tentativo di evasione. Poi un altro, poi un altro ancora, poi l’allenamento e infine il piano definitivo. Non si ferma un attimo ed è appassionante sin da subito. Nessun vezzo, dentro nell'azione. Qui ci sono infinite battute, sia di parola che visive. Si cade spesso, si rimbalza qua e là in un dinamismo visivo eccezionale considerando la tecnica adottata. Stop-motion allo stato dell’arte.
Poi c’è il secondo Galline in fuga, non il sequel, ma quello che si capisce solo da adulti (fatevi un regalo se non lo vedete da quando siete bambini: riguardatelo). È un film sulla Shoah. Sui prigionieri di guerra. È un ovvio omaggio a La grande fuga di John Sturges, sembra omaggiato dal terzo atto di Toy Story 3. È un ritratto schietto e senza fronzoli sulla natura umana. Sulla condivisione (comunista?) di quello che si ha contro i mezzi di produzione taylor-fordisti del capitalismo. Loro in funzione del profitto sacrificano le vite… animali. Già, ma a quel punto le galline non si percepiscono più come tali. Sono vittime civili, della guerra e dell'industria.
Galline in fuga oggi, tra ecologia e politica
Basta superare le scuole elementari per capire quanto Galline in fuga sia un film profondamente politico. Oggi il rischio è di scambiarlo per un monito ecologista, una denuncia delle condizioni di allevamento delle galline nell’industria alimentare. Può essere anche quello, basta leggere qualche commento sotto le clip di YouTube per incontrare persone che dichiarano di essere diventate vegane dopo aver visto il film. Galline in fuga riesce però a fare di più: nelle somiglianze con il campo di concentramento e in quello che succede all'interno riesce a raccontare la psicologia umana.
Due scene agghiaccianti. La prima è la più ovvia: una gallina che non produce più uova viene affettata (ai margini dell’inquadratura). Nel caso ci fosse qualche dubbio sulla sua sorte però, qualche scena dopo, ci viene mostrato Willard Tweedy mentre finisce di gustarsi della carne. La carcassa è nel piatto a fianco.
La seconda è sottile. Quando Melisha Tweedy prova a sbarcare il lunario mettendo all’ingrasso le galline, queste ricevono ingenti quantità di mangime. Si buttano tutte sul pasto, tranne Gaia. Lei ha intuito il disegno più grande, vede le cose dalla distanza. Le altre compagne di detenzione invece sono rassegnate che le cose andranno sempre così (“ho visto tutta la mia vita davanti agli occhi… una noia!”). Al miglioramento delle loro condizioni, quando arriva il cibo, l’idea di andarsene perde di senso. Perché rischiare la libertà ignota contro la sicurezza della detenzione?
La banalità del male. O meglio, l’abitudine al male che lo fa diventare invisibile. Chi nasce in detenzione non si rende conto di essere prigioniero. Galline in fuga, come film, si ribella alle gabbie sin dalla suo scelta di stile. Fa le cose in maniera diversa, più faticosa, ma infinitamente più efficace. Mostra la rivoluzione un passo alla volta, un fotogramma dopo l’altro, fino alla meta. La libertà richiede fatica e, proprio come l’animazione passo uno - e il cinema - non si ottiene mai da soli. Uno può fuggire quando vuole dalla sua gabbia, serve un po’ di scaltrezza. Il punto è però far fuggire chi non riuscirebbe. Salvarsi insieme, tutti in una volta sola.
La cosa eccezionale di Galline in fuga sta proprio in come la sua struttura produttiva vada a completare la trama. Sta anche nel modo in cui le due percezioni, quella del bambino che vede galline che non sottostanno ad un’autorità che vuole il loro male, e quella dell’adulto che lo vive come un film di guerra, convergano nel punto più importante: quando chi non può volare riesce comunque a librarsi in aria.
Si rompono i recinti mentali insieme a quelli fisici per tornare a vivere liberi sull’erba, dove tutti meritano di stare. Un messaggio che arriva forte ancora oggi e che non ha bisogno di un seguito per restare ancora in volo.