Fumito Ueda e Éric Chahi sono la coppia più bella del mondo (e mi dispiace per gli altri)

C'è molto di Another World in ICO, Shadow of the Colossus e The Last Guardian

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Mi sembra incredibile, ma son già passati dodici anni dall’uscita di Shadow of the Colossus. A differenza di ICO, incrociato per caso in un piccolo negozio di videogame della mia città e acquistato d’impulso per via di quella copertina così particolare à la Giorgio de Chirico, il secondo titolo della celeberrima trilogia ideale di Fumito Ueda resta probabilmente il primo e unico gioco che abbia mai inchiodato ad una prenotazione.

Se ci penso, in prospettiva dodici anni non sono poi 'sto granché, eppure tanti ne sono bastati a scardinarmi dall’abitudine di uscire per acquistare i videogiochi in negozio. Ormai sono diventato pigro e sciatto, acquisto quasi tutto online, o meglio ancora in formato digitale, ma ricordo bene la telefonata del negoziante la mattina di quel 17 febbraio 2006: "è arrivato il gioco che hai prenotato, quello dei colossi". Ricordo pure che mi prese un po’ in contropiede. E non perché avessi chissà quale impegno, figuriamoci: all’epoca ero uno studente universitario tanto sfaccendato quando fuoricorso, senza alcun pensiero al mondo. No, il problema era la neve. Alta, fitta, rognosa, e la mia vecchia Renault (RIP) proprio non ne voleva sapere di affrontarla [di sottofondo suona la musichina dell'Amaro Averna].

Però la voglia di giocare era troppa, così saltai su un autobus, poi su un altro e su un altro ancora. Camminai nella neve sporca, mi insudiciai (che eroe!) fino all’ingresso del centro commerciale che conteneva il negozio di videogiochi – a margine: ma perché costruiscono sempre i centri commerciali nei posti più impicciati da raggiungere con i mezzi? Alla fine per recuperare il mio giochino buttai via più di mezza giornata e presi un sacco di freddo. Però, quando tornai a casa, dopo aver scartato la confezione, ammirato le cartoline, infilato il disco nella mia PlayStation 2 (Slim) e lanciato l’ambaradan, beh, capii subito che era valsa la pena abbandonare il tepore di casa: Shadow of the Colossus, proprio come ICO, mi calzava a pennello.

Mi innamorai perdutamente di quel level design così elegante, così ergonomico, così pignolo. Di quell’atmosfera trasognata, con le cutscene ridotte all’osso e la capacità di far emergere un racconto emotivamente intensissimo direttamente dal gameplay, dall'azione, senza giri di parole.

Quella che da fuori poteva passare per una lunga, estenuante, catena di boss battle, in realtà era la perfetta prosecuzione di ICO, nonché per certi versi la sua bislacca e simmetrica antitesi. I colossi rappresentavano allo stesso tempo il Minotauro da abbattere e il labirinto da decifrare. Erano strutture complesse da espugnare, proprio come le aree che li circondavano e li nascondevano alla vista. A livello di puro design, insomma, i bestioni altro non erano che le stanze del castello di ICO con l’aggiunta del movimento e della vita. Anzi, ogni colosso - volendola mettere sull’iperbolico - era un castello intero. Quando venni sfiorato da questo concetto rimasi frastornato: che colpo di genio! Che meraviglia! E che finale. "Chissà cosa combinerà adesso, Ueda", dissi tra me e me.

Quanto mai! Come sanno pure i sassi, dopo aver formulato la tesi e l’antitesi della sua opera in tempi relativamente brevi, Fumito Ueda avrebbe raggiunto la sintesi solo parecchi anni più tardi attraverso il tribolato The Last Guardian.

[caption id="attachment_181524" align="aligncenter" width="1839"]Ico screenshot Il rapporto di affetto e collaborazione tra i personaggi è alla base della poetica e del design di Fumito Ueda[/caption]

Quello che nell’epoca pre-Wikipedia né io né i sassi potevamo sapere, invece, era che qualche anno prima il vecchio Fumito era stato uno studente universitario proprio come me (non saprei dire se sfaccendato o fuoricorso, ma mi piace pensare di sì, con buona pace della nota competitività scolastica giapponese). Iscritto alla Osaka University of Arts, prima di diventare un game designer il nostro aveva tentato di battere la via dell’artista (qualunque cosa significhi) ma con poco successo: forse perché anziché applicarsi a dovere preferiva di gran lunga passare il tempo a pasticciare con i computer dei gaijin, tipo l'Amiga, apprezzando con particolare slancio Prince of Persia di Jordan Mechner, ma soprattutto un certo titolo di Delphine Software firmato da un designer francese di nome Éric Chahi. Quel gioco, naturalmente, era Another World.

Ora, dico "naturalmente" perché ho la pretesa di credere che qualsiasi appassionato non potrebbe fare a meno di notare le numerose analogie tra il titolo francese, e ICO. Io stesso, quando a suo tempo lanciai per la prima volta il gioco del ragazzino con le corna, sentii sussultare il mio passato amighista a base di dischetti pirata (essì), joystick Speedking e un accenno di mullet allìepoca già demodé.

[caption id="attachment_181527" align="aligncenter" width="1280"]Eric Chahi Fumito Ueda Éric Chahi e Fumito Ueda, (assieme anche a Tetsuya Mizuguchi e Katsuya Terada) durante una conferenza ospitata dall'Institut français du Japon.[/caption]

"Sia Another World che i titoli della celebre trilogia di Ueda a conti fatti sono dei platform a fisica semirealistica con elementi puzzle che si fondono generando una narrazione spontanea, uniti da numerose analogie anche a livello artistico e di atmosfera"Sia Another World che i titoli della celebre trilogia di Ueda a conti fatti sono dei platform a fisica semirealistica con elementi puzzle che si fondono generando una narrazione spontanea, uniti da numerose analogie anche a livello artistico e di atmosfera. Ecco, nonostante gli oceani sia fisici che culturali che li separavano, trovo affascinante che attraverso la circolazione del software durante i primi anni novanta sia nato l'abbozzo di un rapporto maestro-discepolo tra Ueda-san e Monsieur Chahi. Entrambi i designer hanno avuto la capacità e la fortuna di comprendere il giusto dosaggio tra la componente rituale e quella mitologica dei videogiochi necessario a evocare la dimensione del "sacro". Per non dire poi del comune gusto per le interfacce pulite, nette; per gli elementi di background vivi e non lasciati al caso, ma soprattutto per la scelta di evolvere non tanto le abilità dell’avatar, quanto quelle del giocatore attraverso la sfida. Tra l'altro e checché se ne dica, a prescindere dall’atmosfera dall’arte, dalla poesia e bla bla bla, la cosa migliore dei titoli di Fumito Ueda secondo me è il gameplay; avvincente, capace di ingaggiare il giocatore persino durante le pause.

Tornando però al sacro e alla contemplazione, non è una caso che anni dopo Chahi avrebbe proseguito nella sua recherche attraverso quel piccolo capolavoro un po' incompreso che è From Dust, lasciando i puzzle e i platform al suo allievo spirituale. Allievo che, dal canto suo, non è riuscito a fare a meno di celebrare per tutta la sua carriera - consciamente o meno, poco importa - il rapporto di amicizia e cooperazione tra il terrestre Lester e l’alieno Buddy di Another World. Lo stesso tipo di rapporto che unisce Yorda con Ico, Wander con Agro, e il ragazzino con Trico. Lo stesso rapporto che in qualche modo, come mi piace pensare, lega pure i due designer.

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