Fuga da Los Angeles è invecchiato bene grazie alla pandemia e ai nostri folli anni
Fuga da Los Angeles è lontano ancora oggi dall'essere un bel film. Eppure gli ultimi anni sembrano aver lavorato per renderlo attuale
Difficile da credersi. Il film del 1981, ambientato nel 1997, è un’opera di fantascienza crepuscolare e pessimista. Jena Plissken un eroe action riuscito; un uomo in un mondo senza più morale che decide di sopravvivere seguendo il proprio codice di regole. E per questo è superiore a tutti gli altri che popolano la città-prigione di Manhattan.
Non aiuta di certo la povera CGI, curata dai poveri artigiani dello studio Buena Vista Visual Effects che prima di allora non si erano mai occupati di computer grafica.
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Il primo film aveva a cuore il rapporto tra l’uomo e la società. Chi sono io per la nazione? Sono un individuo o un soldato sacrificabile (nelle battute “chiamami Jena” o “chiamami Plissken”)? Sono un esecutore di ordini altrui o sono un individuo dotato di coscienza che, alla fine, si pone come terza via tra la società e il governo vincendo di fatto la partita.
Fuga da Los Angeles si occupa invece della morale. La grande differenza è infatti che questa volta al potere c'è l’estremismo religioso. Le differenze spaventano e vengono confinate. Lo stato libero è in realtà proibizionista, con un presidente tutt’altro che padre clemente che sacrifica la figlia come Abramo con Isacco. Ma qual è l’angelo che gli impone il terribile gesto? Non, come si crede spesso, la sua cieca autorità, ma i media, l’apparenza.
Il film di John Carpenter oggi è ancora potente per come provoca mostrando le deportazioni, le guerre, e le continue minacce della fine del mondo, come un loop di forma, apparenza, finzione.
Non ne è certo immune il “cattivo” del film (fatto in realtà solo da villain e antieroi), Cuervo Jones un Che Guevara autodistruttivo e nichilista. Ha rubato un telecomando alla cui attivazione tutta la tecnologia della terra diventerebbe inutile. La casa bianca vuole preservare il funzionamento della moderna società, per quanto rotta e corrotta, salvando la tecnologia. Un pretesto, chiaramente, per poter continuare ad assoggettare la popolazione alle strette leggi morali.
John Carpenter ride molto del suo film e con il film, ma è quanto mai pessimista. Il progresso è un apparato che imprigiona, l’equilibrio tra bene e male è una spirale discendente. L’unico modo per non finire all’inferno in terra è rompere il gioco, come accade nel finale fortemente voluto e scritto da Kurt Russell.
Si ritorna all’epoca dell’uomo, come un animale senziente, e non più come un corpo vuoto, votato all’apparenza. C’è un sacco di finzione in Fuga da Los Angeles, così tanta che persino i pessimi effetti speciali sembrano parte coerente con l’idea del film. Una delle intuizioni più forti è infatti quella degli esseri deformi che, come vampiri nel sottosuolo, si cibano dei corpi. Il loro capo è un chirurgo plastico che smembra e ricompone. Un ideale di eterna giovinezza da non tradire anche a costo di trasformarsi in zombie (o moderni Frankenstein).
l'Happy Kingdom in cui si svolge il finale è chiaramente Disneyland (capiamo senza difficoltà perché Disney non abbia dato il permesso di usare il nome). Un altro luogo di realtà fittizia sopra l’orribile realtà. È un Carpenter in questo molto vicino ad Essi Vivono, ma visibilmente a disagio rispetto all’influenza del cinema e alla morale hollywoodiana. Non ci sono alieni, questa volta, ma guardando il film bisogna ricordarselo spesso. Gli uomini sembrano alieni che hanno sostituito l’umanità presente. Non sono mossi da veri desideri, se non quello di libertà (ma quando il mondo intero è una prigione, da cosa puoi scappare?). E funzionano, eseguono, organizzano partite di basket con la vita come posta in gioco. Il divertimento non è però degli spettatori, inconsapevole parte dello spettacolo stesso. Ma di pochi potenti che dall’alto osservano.
Articolo ispirato da: Bloodydisgusting