Fratello dove sei?, l’Odissea secondo i fraelli Coen compie vent’anni
Fratello dove sei? è uscito nel 2000, e vent’anni (e parecchie elezioni) dopo, il road trip dei fratelli Coen è ancora più affascinante
Fratello dove sei? e Omero
Fratello dove sei?, per lo meno sulla carta, nasce più o meno in contemporanea a Fargo, un film nel quale i fratelli Coen riversarono tutto quello che sapevano, e pensavano, del natìo Minnesota, del suo clima, dei suoi abitanti, e ovviamente della neve. Fratello dove sei? è il suo opposto, l’altra faccia della medaglia: ecco due cresciuti nell’America rurale – ma comunque in una famiglia colta, e istruiti a dovere pure loro –, che decidono di raccontare il Sud della Grande Depressione, conservatore, retrogrado e pure profondamente cattolico, al contrario dei Coen che sono di famiglia ebraica e riconoscono l’influenza culturale che la religione ha avuto sul loro stile.
Fratello dove sei? e il folk
Il risultato è un road trip, come quello di Ulisse in effetti, che è anche una collezione di vignette che raccontano stralci di vita nel sud degli Stati Uniti durante la Grande Depressione, filtrati dalla lente satirica di due che non avevano preso sul serio i loro vicini di casa, figuratevi quelli che vivono dall’altra parte del Paese e che ricordano (a volte in maniera evidente, altre richiedono invece di strizzare bene gli occhi e crederci fortissimo) altrettanti episodi dell’opera omerica. Ci sono le sirene mischiate con la maga Circe, un indovino cieco, l’incontro con un gigante (che non è un ciclope e non viene accecato, purtroppo), e ovviamente la figura di Ulysses, il personaggio di George Clooney, scaltro e sagace e che deve tornare a casa per riconquistare la moglie che gli è stata rubata dall’equivalente mississippense dei Proci.
E come “quelle robe greche lì” (o almeno così ci immaginiamo dovessero apparire le note di sceneggiatura) avevano il coro e la musica ad accompagnare il racconto e sottolineare le scene madre, Fratello dove sei? ha l’equivalente americano, il folk, il bluegrass, il country, il gospel, tutta quella musica associata allo strimpellare di un banjo e al rumore del mais che cresce, e che nel film è un tappeto costante fin dal primo minuto, e cresce fino a diventare parte integrante dell’intera storia. Ruba la scena ovviamente Man of Constant Sorrow, un pezzo del 1913 del violinista cieco Dick Burnett, ripresa negli anni da gente tipo Bob Dylan e Ginger Baker (e pure Miley Cyrus) e qui trasformata in MacGuffin in una versione prodotta da T Bone Burnett (uno dei migliori musicisti americani contemporanei), cantata dal bluegrass-ista (?) Dan Tyminski e affidata per la messa in scena all’adorabile faccia da schiaffi e capsule Nespresso di George Clooney.
Affetto o sfottò?
I Coen hanno proseguito a fare film coltivando la passione per la musica, per certa musica in particolare, e la sua centralità nelle storie che amano raccontare – basta pensare ad A proposito di Davis, o al più recente La ballata di Buster Scruggs (qui la nostra videorecensione); in questo senso, Fratello dove sei? è una sorta di prova generale per una buona fetta della loro carriera. Com’è anche una prova generale per Il grinta e Non è un Paese per vecchi: molto di quello che Joel ed Ethan Coen hanno fatto negli ultimi vent’anni nasce con Fratello dove sei?.
In questi vent’anni, però, parecchie cose sono cambiate, nel mondo e nel modo di vederlo dei due, e tutto quello che hanno fatto dopo, in particolare ogni volta che sono tornati nella c.d. “America profonda”, ha perso completamente quell’aria scanzonata e quasi cartoonesca che funzionava così bene in Fratello dove sei?, un film fatto per sfottere l’ignoranza del profondo sud che lo faceva con un tale affetto, un tale senso di meraviglia persino per certe assurdità, da riuscire anche a mascherare il distacco ironico con cui due autori ricchi e istruiti raccontavano la vita dei poveracci consumati dal sole e dai debiti nel 1937. Forse il vero miracolo di Fratello dove sei? è proprio questo, la sua capacità di prendere gli stereotipi ed elevarli a mitologia senza mai smettere di prenderli in giro per la loro assurdità; non vogliamo dire che i due non abbiamo mai più fatto di meglio, ma sicuramente non l’hanno più fatto così.