Fog di John Carpenter è tanto fumo e tanto arrosto
Fog di John Carpenter è uno dei migliori horror “costieri” di sempre, e un film ingiustamente sottovalutato
Fog, curiosa traduzione italiana del titolo originale The Fog, è uno dei film più ingiustamente dimenticati di John Carpenter: arrivato sull’onda del successo di Halloween, se ne distaccava nettamente pur mantenendo fissi alcuni di quelli che sarebbero diventati capisaldi della poetica del regista newyorkese, e per questo venne ricevuto, da critica e pubblico che speravano in un bis dei brividi di Michael Myers, peggio di quanto si sarebbe meritato. Come spesso accaduto con i film del Baffo, ci sono voluti anni e visioni plurime perché Fog venisse pienamente capito e rivalutato, e anche perché lo stesso Carpenter ci facesse pace.
Fog e la vita sulla costa
Fog è un horror il cui impatto è inevitabilmente legato alla vostra personale esperienza con il mare; chi è cresciuto sulla costa, magari in una piccola, isolata città di pescatori com’è la Antonio Bay del film, ci metterà un istante a entrare in sintonia con la vita degli abitanti del posto, un gruppo di persone – per la maggior parte donne solitarie, come capita spesso nei film di Carpenter scritti da Debra Hill – i cui ritmi quotidiani sono dettati dalle maree e che hanno la costante sensazione di vivere letteralmente in mezzo al nulla: Antonio Bay è come la Haddonfield di Halloween, un non-luogo che esiste solo in relazione a se stesso e non comunica mai con l’esterno, e che rispetto al paesino dell’Illinois ha in più il fatto di sorgere sul mare, e dunque di essere circondata da una massa d’acqua cupa, fredda e inospitale.
Fog e le macchine del fumo
Fog, dunque, è costruito in maniera non dissimile da Halloween, il film che due anni prima aveva lanciato il nome di John Carpenter: c’è un luogo isolato, un’entità malvagia che lo infesta, e un gruppo di persone che devono fare di tutto per sopravvivere – qualcuno ce la farà, altri non vedranno i titoli di coda. Rispetto ad Halloween, però, Fog si basa su un villain incorporeo e impalpabile; certo, la nebbia è abitata dai cadaveri rianimati dell’equipaggio della Elizabeth Dane, che come zombie abissali riemergono in occasione del centesimo compleanno di Antonio Bay per dare inizio al massacro. Ma la loro presenza è limitata, in termini di minutaggio e anche di impatto: sono agenti della nebbia ed esistono grazie a lei, che è la vera antagonista del film.
E non è facile girare un horror nel quale il “cattivo” è... vapore acqueo condensato intorno a particelle di aerosol, che potete riprodurre comodamente a casa vostra usando una macchina del fumo. Carpenter risolve il dilemma puntando tutto su un’altra qualità filmica intangibile e non misurabile: quella che si chiama “atmosfera”, che in Fog è costruita a colpi di campi lunghi (e girati in widescreen anamorfico, come quasi sempre nella sua carriera) e con una continua alternanza tra scene diurne e notturne, luci e ombre, terra e mare e altri dualismi simili. Fog fa paura (o meglio inquieta, visto che di jump scare e momenti gore ce ne sono relativamente pochi in confronto ad Halloween) perché mette chi guarda nei panni di chi abita ad Antonio Bay, e lo fa sentire solo e minuscolo di fronte all’immensità dell’oceano e al nulla della civiltà che (non) lo circonda: il primo atto del film è pieno di scene in cui vediamo una persona “sola dentro una stanza e tutto il mondo fuori”, e nelle quali il paesaggio è sempre inquadrato da dietro un qualche vetro, come a volerlo tenere a distanza.
Jamie Lee & family
Aiuta ovviamente che John Carpenter sia anche un grande regista di attori e attrici, e che il cast di Fog sia composto da gente chiaramente innamorata del progetto (e del regista, come dimostrano tutte le collaborazioni successive). Jamie Lee Curtis, che aveva già lavorato con Carpenter per Halloween, disse a Rolling Stone che “John mi fa esplorare diversi aspetti di me, mi ha viziata, il mio prossimo regista sarà quasi certamente una delusione”. Sua madre Janet Leigh accettò di tornare a recitare in un horror vent’anni dopo Psyco (se escludiamo l’esperienza con La notte della lunga paura del 1972, scelto sulla base del fatto che veniva girato vicino a casa sua). Adrienne Barbeau, che delle tre donne del film è quella che più si avvicina all’idea di “protagonista”, era al suo primo lavoro per il cinema, e negli anni successivi tornerà a lavorare con Carpenter in Fuga da New York e La cosa (nel suo caso può avere aiutato anche il fatto che al tempo era sua moglie). Tutte e tre riescono nell’impresa di far sembrare minacciosa e inquietante un po’ di nebbia, e a “venderci” il film con la sola forza del saper stare bene in scena.
Il risultato è un film che se uscisse oggi, quando ormai ci siamo ri-abituati agli horror che iniziano piano ed esplodono solo sul finale, verrebbe accolto come un capolavoro, e la perfetta rappresentazione del perché vivere sul mare può essere spaventoso, nebbia assassina o meno. L’importante, se doveste decidere di recuperarlo, è non confonderlo con il remake del 2005, voluto (anche) da Carpenter ma virato al teen horror: anche quello fa molta paura, ma per tutti i motivi sbagliati.