Fino all'ultimo respiro in realtà racconta la storia d'amore tra la Francia e l'America

Rilettura della storia di Fino all'ultimo respiro, a 60 anni dalla sua uscita, come la cronaca dell'innamoramento (non corrisposto) della Francia per l'America

Critico e giornalista cinematografico


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Fino all'ultimo respiro racconta la storia d'amore tra la Francia e l'America nel dopoguerra

Le regole non esistono. Sono qualcosa di impostato da chi è venuto prima e confermato da chi c'è adesso. Vincolano solo chi vuole esserne vincolato.
Non esistono gabbie formali ad un mezzo d’espressione, figuriamoci ad una forma d’arte. Sono solo convenzioni fissate da chi produce per comodità, per poter organizzare una squadra, un team o una troupe in modo che tutti sappiano fare tutto e convenzioni comode a chi fruisce, a chi guarda, così che sappia già cosa attendersi, perché un oceano di novità sempre diverse ogni volta sarebbe insostenibile, troppa informazione, troppo opaca. Le convenzioni sono utili a tutti per fare in fretta, essere chiari, comprendere e veicolare in maniera efficace un’idea. Ma non sono regole, possono essere disattese in ogni momento. Le regole non esistono.

È impossibile guardare oggi Fino all’ultimo respiro e capire esattamente cosa potesse significare vederlo nel 1960, quando uscì la prima volta. Tutto quello che distruggeva oggi è diventato una regola, tutto quel che di devastante faceva, oggi si è trasformato a sua volta in una convenzione. Dal jump cut al parlare in camera, dalla musica che parte e si interrompe di colpo fino alla sparatoria raccontata per dettagli, era un insieme di soluzioni che erano già usate, anche nel cinema francese di prima della seconda guerra mondiale (basta pensare a Sacha Guitry uno dei primi a fare film che sanno di essere film) in una minoranza di film marginali e che in quel film per la prima volta venivano usate tutte insieme, per la prima volta diventavano stile, non un’eccezione ma una “regola”.

Fino all'ultimo respiro

Rompendo le regole e creandone altre, sue, Godard inventava il cinema moderno.

Vedere Fino all’ultimo respiro voleva dire essere investiti da qualcosa di sconnesso, sbagliato sotto tutti i punti di vista, eppure così evidentemente giusto, dinamico, innovativo, coinvolgente e fresco. Qualcosa che parlava molto più di cinema, di quello che dovrebbe e potrebbe essere che della sua trama.
La prima cosa che quel film affermava era il valore della rottura delle regole e la loro sostanziale fragilità.

Fino all'ultimo respiro

“Fino all’ultimo respiro mi ha insegnato la gioia di rompere le regole e cazzeggiare con il mezzo” - Quentin Tarantino

Se non è possibile provare cosa volesse dire all’epoca vedere Fino all’ultimo respiro, guardando oggi quel film che parla più di cinema che della sua trama, sale a galla fortissima proprio la seconda. La storia semplice ed esile di un piccolo criminale francese che ruba un’auto, uccide un poliziotto e si nasconde a casa di una ragazza fino a che lei stessa non lo denuncia, finendo per morire in uno scontro a fuoco da operetta. Tutta la parte d’azione di questa sequenza di fatti è compressa all’inizio e alla fine, il grosso del film sono dialoghi tra i due, passeggiate, vedute di Parigi, scene in strada. È una non-storia, scritta da Truffaut, revisionata da Chabrol ma poi tutta cambiata da Godard, piena d’improvvisazione e vitalissima. Nelle sue mani era diventata la storia del proprio paese e del cinema francese per come l’aveva vista e vissuta Jean-Luc Godard dalla fine degli anni ‘40 (quando studiava alla Sorbona) fino a tutti gli anni ‘50.

Fino all'ultimo respiro

Era infatti accaduto alla fine della guerra che la Francia stringesse un patto con gli Stati Uniti, un accordo politico che annullava gli immensi debiti di guerra maturati dai francesi nei confronti degli americani. Come conseguenza di quest’accordo saltò anche la parziale chiusura dei cinema francesi nei confronti dei film americani. Di colpo la generazione di Godard che nel 1950 aveva vent’anni, veniva invasa dal cinema americano. I film del decennio precedente (mai arrivati) e quelli contemporanei, tutti insieme. Si erano persi i western degli anni ‘40, i melodrammi, la nascita del noir e la creazione di star come Humphrey Bogart.

Tutto questo entra prepotentemente in Fino all’ultimo respiro, che racconta una di un criminale con il mito delle star del cinema criminale e duro americano (Bogart in primis). Lui, Michel, interpretato da Belmondo, ruba una macchina americana e nella macchina americana trova una pistola. La sua iniziazione al film e alla trama avviene fregando qualcosa dal mito statunitense e facendolo proprio per assomigliargli. Da quel momento si comporta come loro e una volta ucciso un poliziotto con leggerezza fugge dalla ragazza di cui è innamorato. Americana anch’essa.

Fino all'ultimo respiro

È proprio quel tipo di tradizione cinematografica del realismo poetico francese per cui sia Godard e Truffaut andavano matti che si innamora della novità statunitense, dei suoi miti e ai quali quel mondo appare sempre lontano, come lontana è Jean Seberg, un po’ distante, simpatica, affascinante ma altera.
Mentre Belmondo è la parodia di un gangster americano, piccolino di fronte al faccione gigante di Bogart nel poster di Il colosso d’argilla, Jean Seberg è un alieno in Francia con cui gioca sotto le coperte ma mai veramente sua. Addirittura lui stesso in mezzo alla valanga di dialoghi tra i due ad un certo punto dirà che la loro unione è “una vera riconciliazione francoamericana”.

Fino all'ultimo respiro

Un francese con il mito dell’America che imita Bogart in un film che di fatto è un noir all’americana ma tutto spezzettato, sconnesso, conscio di essere un film ed elettrico. Palesemente un’imitazione e non quella cosa lì. È così intento a rompere ogni regola Godard che nel film stesso riconosce che la trama gli trascende, che a furia di improvvisazioni gli sfugge di mano e inserisce se stesso, nel ruolo di un passante che indirizza la polizia verso il protagonista. Fare dei cammeo era prassi per tantissimi registi da quelli di Hitchcock nei suoi film muti in poi, ma Godard inserisce se stesso, l’autore, nei panni di qualcuno che cerca di dare una direzione alla trama.

Ci riuscirà, la polizia raggiungerà il protagonista che alla fine morirà come le convenzioni del genere vogliono (ma è una delle molte decisioni prese sul set, originariamente non doveva andare così). Solo che avviene in una maniera parodistica, camminando all’infinito lungo una via cittadina, in una scena rubata (e girata senza autorizzazioni), con i passanti che osservano straniti cosa stia accadendo e guardando in camera rendono evidente a tutti il fatto di non essere comparse. In mezzo alla società civile la sconfitta della Francia ad opera dell’America.

Fino all'ultimo respiro

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