Fight Club 20 anni fa raccontava gli anni '90 così bene da floppare

Il film che meglio di tutti ha raccontato il sentimento americano alla fine degli anni '90, Fight Club, era così uno specchio scuro da non attirare nessuno

Critico e giornalista cinematografico


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IL 29 OTTOBRE DI 20 ANNI FA FIGHT CLUB USCIVA NEI CINEMA ITALIANI

Gli uomini di certo non vogliono vedere Brad Pitt senza maglietta. Li mette a disagio. E le donne di certo non vogliono vederlo insanguinato. Quindi non sappiamo davvero per chi tu abbia fatto questo film”.

Così il reparto marketing della 20th Century Fox sbatteva in faccia l’ennesima porta a David Fincher, che già aveva avuto scontri epici con la major per Alien 3, tanto da giurare di non lavorarci mai più, tanto da disconoscere il film. Poi però quando sembrava che l’unica maniera per fare questo film fosse proprio con la Fox aveva capitolato, perché ci teneva e perché veniva da Se7en stavolta, non era più un esordiente. Infatti ebbe la libertà che voleva ma non aveva fatto i conti con il marketing, secondo il quale questo film non avrebbe mai potuto funzionare.

Il bello è che questa non è la classica storia di un autore che vede più lontano del resto del freddo business incapace di capire il nuovo. Il marketing aveva ragione! Fincher ottenne anche di fare parte della campagna come desiderava, girando in prima persona degli spot con Norton e Pitt che, interpretando i loro personaggi, parlavano agli spettatori (del resto veniva dai videoclip e dalla pubblicità, conosce benissimo quel linguaggio). Roba provocatoria, roba dura, come il film. Ma non servì, aveva ragione il marketing. Quel film che “davvero non sappiamo per chi tu l’abbia fattoincassò 37 milioni in patria, arrivando ad un totale di 100 milioni con il resto del mondo a fronte di un costo di 63 milioni (il che significa che doveva farne 126 per andare pari). Quel risultato fu l’ultimo chiodo nella bara di Bill Mechanic, il capo dello studio, che rassegnò le sue dimissioni a Rupert Murdoch l’anno seguente. Per dire di quanto potevano essere felici dell’esito. Un film impresentabile che la mostra di Venezia diretta da Barbera (primo mandato) mandò a mezzanotte senza enfasi, di cui lo studio non era certo fiero (era sporco, scurrile, sovversivo e poco comprensibile) e nemmeno aveva fatto soldi!

È stato dopo, nel mercato home video, che il film è cresciuto diventando uno dei titoli di maggiore profitto (in quel settore) per la Fox. 55 milioni di dollari solo di noleggi e 6 milioni di dischi venduti. Un trionfo a cui si aggiunge, ovviamente, quello critico.
Questa è la storia produttiva e commerciale di Fight Club, un film che non era fatto per essere commercializzato in sala, che il pubblico non aveva capito inizialmente ma che avrebbe capito dopo qualche anno, un film schiacciatissimo sugli anni ‘90 che già nel ‘99 arrivava a fare un bilancio di quella decade così strana per l’America, di quegli anni così vuoti, pieni di benessere e relativa pace ma anche terribilmente inquietanti.

A discolpa del pubblico (una volta tanto) non era un film facile da capire. David O’Russell, a cui fu proposto inizialmente, lo rifiutò dopo aver letto il libro omonimo di Palahniuk perché “non l’ho capito” disse (e dopo il successo del film ammise “Forse lo dovevo leggere meglio”). Lo capì benissimo Fincher che in quella rabbia non più giovane si ritrovava tantissimo. La rabbia anonima del cubicolo, della vita inquadrata e tranquilla sotto la quale battono inquietudini potenti. Cioè gli anni ‘90. Qualcosa di simile a quello che ha fatto l’anno scorso il fumetto Sabrina di Nick Drnaso (un Fight Club di oggi senza violenza e con più vuoti).
L’America era uscita dalla guerra nel golfo ad inizio decennio, aveva un presidente bonario e sornione che suonava il sax, non era coinvolta in nessun conflitto e non aveva nessuna crisi economica impendente, anzi. Era un paese che prosperava, il cui unico problema era l’impeachment e Monica Lewinsky, non ancora conscio di essere una potenza in discesa rispetto a quelle asiatiche. Gli anni ‘90 sono stati l’ultimo momento di tranquillità ed egemonia USA eppure anche gli anni del punk, della musica depressa del suicidio di Kurt Cobain, delle droghe chimiche, dei rave ecc. ecc.

Quello che Fight Club raccontava non è diverso da quello che raccontavano Matrix o American Beauty, storie di fine millennio in cui qualcuno dal lavoro estremamente ordinario non vive felice e sente che c’è qualcosa di più da qualche altra parte, desidera ascendere ad un altro stadio. Impiegati, padri di famiglia, single e uomini medi che non hanno nessun problema immediato eppure non sono felici. Edward Norton parla di mobili IKEA, di piccoli segni di benessere che rendono la sua vita anonima e sempre più vuota, riempita di manie, attutita dal frequentare gruppi di sostegno per vedere chi sta peggio, così anestetizzata e in cerca di emozioni da trovarle finalmente nelle risse.

Il fisico di Edward Norton, così medio in quel film, in camicia, cravatta e lividi in faccia (ma felice!) è un’immagine pazzesca. Sotto quella realtà in cui tutto pareva andare bene pulsava un desiderio di sfogo di una rabbia indefinita. E la coppia che compone con Brad Pitt, all'epoca uscito da Se7en, L'Esercito Delle 12 Scimmie e Ti Presento Joe Black è una delle meglio assortite di sempre per lo scopo del film. Il massimo del pericoloso e desiderabile con il massimo dell'ordinario. Così impegnato era Brad Pitt che nonostante il buon rapporto tra i due Fincher dovette farsi trovare sotto casa sua una sera e dargli la sceneggiatura in mano costringendolo a leggerla per ottenerlo (pare che fu Jennifer Aniston a rasargli i capelli).

Non è difficile capire come mai David O’Russell non ci avesse visto nulla nel romanzo. Certo l’aveva letto superficialmente, ma proprio superficialmente la storia di gente che se le dà nei vicoli e di nascosto progettando poi di distruggere il sistema capitalista sembra una cretinata. E non è difficile capire come mai non ci fu amore immediato con il pubblico ma fu necessario qualche anno perché scattasse, perché quel sentimento che Fincher chiama “una rabbia generata dal malessere” fosse così chiaro a tutti da permettere ad un pubblico di massa e non solo di nicchia di riconoscere se stessi in quella commedia non-commedia, in quell’impiegato che odia la sua vita tranquilla e che trova un nuovo capitolo di sé in qualcosa di illegale, doloroso ma vivo. Ci deve essere qualcosa di più, la stessa sensazione che sente Neo in Matrix. Il protagonista di Fight Club ha fatto tutto quello che la società gli ha detto di fare eppure sta male, ora proverà a fare tutto quello che non dovrebbe fare per stare meglio.

La deregulation fiscale aveva portato il debito pro-capite americano nei confronti ad alti livelli e sempre più i cittadini vivevano facendo debiti con le carte di credito (la corte suprema aveva sancito la possibilità per queste di stabilire tassi altissimi). Sempre più persone avevano così in odio le società che Tyler Durden fa saltare alla fine.
Una volta tanto quando si dice che un film era avanti rispetto ai propri tempi, lo si dice letteralmente.
Sarebbe successo di tutto già a partire dal 2000, lo scoppio della bolla speculativa dell’economia legata ad internet, e poi dal 2001 sarebbe ricominciata la giostra della guerra e del terrore. Ma in quel momento, in quel 1999, Fight Club raccontava la rabbia repressa.
Visto oggi il film è sempre più una commedia d’epoca, parla non più di quel momento storico ma di quel sentimento eterno che è il desiderio di trovare qualcosa di più, ed è inevitabile sentire una certa distanza da questo “coming of age di un 30enne” come lo definì Fincher.

Fin qui però arriva l’adattamento del romanzo. Quello che Fincher ci ha iniettò dentro fu una scossa elettrica fatta di montaggio e color correction (la stessa che aveva iniziato a sperimentare seriamente in Se7en). Erano ancora gli anni in cui tutti imitavano Tarantino, in cui i film parlavano della cultura pop, in cui gli horror come Scream raccontavano le regole del cinema, Fincher spaccava la pellicola, faceva fare a Tyler Durden il proiezionista, inseriva piselli nei film Disney (ma ce ne sono anche in Fight Club proprio), utilizzava il montaggio sapendo che il pubblico sapeva. Fight Club prima spiega (nella scena dei piselli per l’appunto) come funziona l’editing e poi fa in modo che la trama ne sia influenzata così che il pubblico senta la mano di chi modifica ciò che vede.
Quando scopriamo il twist del film rivediamo scene già viste ma stavolta senza Brad Pitt. In un altro film sarebbero stati dei ricordi finalmente chiari, qui sono proprio immagini modificate in post produzione, non c’è velo, qualcuno le sta modificando punto e basta.

Fincher aveva fatto di un film un’opera in cui ci sembra di sentire la mano di qualcuno. Fight Club stesso è un prodotto pop con cui il sistema ci calma, esso stesso è intrattenimento per masse che sognano altro e proiettano, come il protagonista, fantasie superomistiche nel superuomo Tyler Durden. Le due facce di ciò che siamo e ciò che sogniamo. Ti credo che avrebbe dato fastidio agli uomini vedere Brad Pitt a torso nudo!
Tutto l’umorismo ci calma ma senza quell’ironia Fight Club è un attacco diretto a noi che guardiamo. Pensare che dopo questo film (e senza nessun legame ad esso) il cinema ha iniziato a svoltare nella direzione dei superuomini e che questa direzione si è dimostrata in dieci anni la più redditizia in assoluto per (almeno) i successivi 20 fa un po’ impressione.

In questo film di ribellione, terrorismo vero e simulato, risse salvifiche e inganni della mente, l'oggetto del desiderio e demiurgo di tutto è una parte del cervello del protagonista che fa il proiezionista. L'uomo con il final cut (i proiezionisti tagliavano la pellicola per sistemarla nei proiettori) comanda anche il film che vediamo, comanda la vita del protagonista ed è il simbolo di tutto ciò che non va in una società in cui tutto sembra andare bene.

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