Fievel Sbarca in America compie 30 anni: è ancora una "storia americana"?
A distanza di 30 anni dall'uscita nelle sale, riscopriamo Fievel Sbarca in America, frutto della collaborazione tra Don Bluth e Steven Spielberg
Questa settimana, il film ha compiuto 30 anni, dopo aver conservato per tre decenni un fandom solidissimo. Cosa rende interessante, allora come oggi, l'avventura del giovane topo emigrato in U.S.A.?
Good tale, American Tail
È curioso che nel 1986 e nel 2004, con in mezzo quasi un ventennio, Spielberg abbia scelto di raccontare, prima come produttore poi come regista, l’arrivo negli Stati Uniti di due improvvisati eroi, uno dalla Russia del diciannovesimo secolo e l'altro dall’est europeo del nuovo millennio. Eppure, Fievel Sbarca in America e The Terminal escono in periodi completamente diversi: il primo in pieno edonismo reaganiano, con un Presidente che cita Ritorno al Futuro nei discorsi ufficiali (“Dove stiamo andando non c'è bisogno di strade” esclamerà Reagan in diretta tv davanti a uno sbigottito Spielberg che lo guarda dal salotto di casa); il secondo in piena crociata di Bush Junior contro un manipolo di “Stati canaglia” che, a detta del Comandante in Capo, minacciano sicurezza, serenità e modo di vivere dell’universo yankee. “Mai dire mai!” canta il piccione Henri al piccolo Fievel, svelandogli come in America tutto possa accadere e come le possibilità di realizzarsi e di trovare ciò che si cerca siano infinite: “Chissà cosa nasconde quell’uomo, da quale Gulag è scappato” bofonchia Stanley Tucci in aeroporto di fronte a un Viktor Navorski completamente inoffensivo.
Non ci sono gatti in America?
Nell'incipit, Bluth si avventura ancora una volta nel mondo contadino. Se anni dopo, in Anastasia, sarà la rivoluzione a colpire (opportunamente velata dal maleficio di Rasputin che butta in caciara l’attacco dei bolscevichi), il villaggio di Fievel è invece vittima dell’attacco dei cosacchi, con al seguito i loro mostruosi e feroci gatti. Per i topolini, ancora una volta, il passaggio dell’uomo è devastante: “Scappate! Scappate! È arrivato l’aratro! Via! Correte! Oggi si trasloca!” urlava zia Bisbetica in Brisby e il Segreto di Nimh. Traslocheranno anche i Toposkovich, topolini sotto sfratto alla ricerca del sogno americano e di una vita migliore, possibilmente senza felini. Dopotutto, l’America di Fievel non è solo la meta privilegiata di chi è in fuga da persecuzioni di vario tipo, ma è anche la panacea di tutti i mali che affliggono le rispettive patrie degli speranzosi emigranti. “In America puoi dire tutto quello che vuoi!” esclama il padre di Fievel, mentre i suoi compagni di viaggio narrano delle sventure subite durante una vita di stenti e privazioni, che dovrebbero finalmente cessare con lo sbarco a New York. “Non ci sono gatti in America, e ci regalano il formaggio” esclamano i topolini in rotta verso un paradiso di nuove speranze e possibilità di rifarsi una vita. È davvero così? Forse no ma, in realtà, importa poco: dopotutto, in originale l’avventura di Fievel è “An American Tail”, curioso gioco di parole che mescola “una storia americana” e “una coda americana”, sovrapponendo in maniera quasi scientifica la terra delle opportunità e il suo eroico protagonista immigrato. Anche perché chiunque, giunto nella galassia a stelle e strisce, può americanizzarsi e lasciarsi alle spalle il passato: “Questo nome non va bene per te, ti chiameremo Frankie!” esclama Tony dopo aver sentito il nome di Fievel Toposkovich. Non è un caso che “Fievel”, nome Yiddish del nonno materno di Spielberg, fosse un nome che non convinceva neanche Bluth, ma che Spielberg riuscì a mantenere nel film con il compromesso che Tony apostrofasse il protagonista con un nickname.
Prima che in casa Pixar Marlin andasse alla ricerca di Nemo, Bluth ha narrato lo struggimento della ricerca di parenti e amici perduti, separati da eventi epocali o incomprensioni apparentemente insormontabili, in un avventuroso percorso tra una separazione traumatica e un atteso ricongiungimento familiare: anche in Eddy e la Banda del Sole Luminoso gli animali della fattoria andranno alla ricerca del gallo Chanteclair, dopo averlo imprudentemente allontanato credendolo un impostore. E non è un caso che la meta da raggiungere sia un luogo reale ma anche leggendario, al quale tendere costantemente come in un cammino verso una Terra Promessa. Ma l’America di Fievel, la città di Eddy e la chiacchieratissima Valle Incantata dei dinosauri sono mete alle quali giungere con ambizioni diverse a seconda dell’oggetto della ricerca: in Fievel l’arrivo in America, una vera e propria "Valle Incantata" per i topi, non è il gran finale ma soltanto l’inizio del racconto, proprio perché il topolino non è un semplice avventuriero protagonista di un viaggio della speranza, ma un cosmopolita in grado di fare di testa sua anche dall’altra parte del mondo. In patria, contrariamente al parere dei genitori, sfidava da solo i gatti che assaltavano il villaggio. Perché, allora, l’America? Semplicemente per la possibilità di fare squadra e dare modo alla vicenda di dimostrare che, se l’unione fa la forza, il melting pot americano e il suo crogiolo di culture può fare la differenza. E in una società come quella americana, fondata sulla fiducia, sullo stato leggero e sull’affidabilità della parola data, ciò che dal basso non viene tollerato è la menzogna. Qui c’è infatti un gatto che si finge un topo: smascherarlo renderà possibile, a cascata, il ripristino della giustizia a tutti i livelli.
È dunque tutto davvero un racconto di disillusione? L’odissea di Fievel è davvero la storia di chi viaggia verso un chiacchierassimo eden senza gatti ritrovandosi inavvertitamente in un gineprario di felini? No.
La ricerca della sua famiglia insegna a Fievel lo scollamento tra un’idea (la canonizzazione del mito americano) e la realtà dei fatti (lo sfruttamento di chi è in una posizione di soggezione), ma anziché rovesciare il mito americano lo esalta da tutti i punti di vista. I topolini che cantano “Non ci sono gatti in America e ci regalano il formaggio” scoprono che l’America pullula di felini e che nessuno li aspetta con un piatto caldo. Ma scoprono anche che possono cambiare le cose ed essere artefici del proprio destino. L’eden americano di Fievel è un guazzabuglio di difficoltà e, spesso, anche di emarginazione, ma contiene al suo interno un meccanismo di ridistribuzione del merito che, nel lungo periodo, punta su chi ha dalla propria parte verità e ambizione. I topi non trovano la pappa pronta, ma Fievel trova un tessuto sociale pronto a premiare il suo spirito di iniziativa. Per il piccolo topo trovare l'America non è imbattersi in un mondo senza problemi o guai, ma catturare la condizione dello spirito necessaria a affrontarli. È questo, e solo questo, che gli permetterà di indossare, finalmente e con fierezza, il cappello di suo padre. La sua ricompensa a stelle e strisce non è un mondo in cui azzerarsi completamente e ricominciare, ma una casa nella quale valorizzare le proprie radici. È ancora una "storia americana"? Può darsi, anche perché in tutta la sua ridondante retorica l'America dà ancora alle profezie che si avverano un valore messianico: non credo a qualcosa perché so che si avvererà, ma so che si avvererà perché ci credo. Resta il nodo di badare bene a cosa credere, ma non è sulla coda di Fievel.