Festival di Venezia 2024, il commento: premi giusti, ma in fondo obbligati, in un'edizione scarna di sorprese

I festival si fanno con i film che ci sono, e Venezia non fa eccezione, ma la maniera in cui vengono disposti racconta molto della voglia di rischiare o meno

Critico e giornalista cinematografico


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È andata bene. Pedro Almodóvar, dopo una carriera incredibile, a 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo. Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, personale, unico e di grande capacità di sorprendere, ma che non è uno degli apici riconosciuti della sua filmografia (già Dolor y Gloria, premiato a Cannes con la Palma ad Antonio Banderas, è un film migliore) non conta niente. La retorica dell’avergli dato un premio per un film che non sarà considerato in cima alla lista dei suoi film più importanti è un dettaglio che mai come in questo caso è fuorviante. Questo non è un premio alla carriera (lo ha ricevuto, proprio a Venezia, nel 2019), ma un premio alla capacità di Pedro Almodovar di essere Pedro Almodovar. È senza dubbio un autore da cinema degli anni ’60, uno che fa film personali con uno stile molto forte che ha creato quasi da zero. La stanza accanto ha una sinossi esile e uno sviluppo blando ma è animato dalla potenza del cinema di Almodóvar, è puro stile e autorialità, dalla messa in scena fino alla prospettiva sulla vita (un'idea di cinema e una di mondo, come diceva Truffaut).

La grandezza di questo film non sta nella concezione e nella maestria (come per esempio sta in The Brutalist, film anche più bello) ma nella capacità di Pedro Almodóvar di raccontare qualcosa sovvertendo ogni aspettativa, esprimendo un punto di vista intellettuale estremamente sofisticato, attraverso gli strumenti del cinema che ha inventato e continua a padroneggiare. Ci sono almeno un paio di trovate che gridano Almodóvar, e che in qualsiasi altro film sarebbero state accolte con risate di scherno. Qui invece sono sublimi. Questo è da premiare.

Un'edizione non eccezionale, a eccezione delle serie

Il resto dei premi, in linea di massima, non ha deluso anche perché questa 81esima edizione non è stata proprio eccezionale, ma particolarmente scarica di grandi film (sempre considerando la parte di concorso e fuori concorso che abbiamo visto e coperto per Badtaste). Non c'era insomma molto altro a meritare un premio. Doveva essere, come dicemmo alla presentazione del programma, il festival del cambio di frequentazione, quello dei film molto lunghi e delle serie (importantissime) presentate per intero e lo è stato. Disclaimer e M - Il figlio del secolo hanno catalizzato l’attenzione e i discorsi tanto quanto i grandi film in concorso, con una ricezione (specie il secondo) buona come raramente si è visto. Families Like Ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, a un livello di poco inferiore, sono comunque state seguite, commentate e al centro dei discorsi che il concorso ha faticato a generare.

Se si esclude l’eccezionale The Brutalist (il film che più di tutti rimarrà di questa mostra) e il solito eccessivo e per noi bellissimo Queer di Guadagnino, sono pochissimi i film che hanno generato attenzione reale (Joker 2, ovviamente, ma non in positivo). Soprattutto non ci sono riusciti i film più piccoli. El Jockey si è fatto notare i primi giorni e poi quasi nulla più, il resto del concorso ha navigato tra il buono e il poco buono, con alcune punte più divisive (Babygirl). Molto più appassionanti le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo non inserito in concorso). Anche l’allucinante 2073 di Asif Kapadia (un film da mettere all’indice, se mai ne esiste uno) fosse stato in concorso avrebbe generato più discussioni, rabbia e vitalità.

Non ci sono dubbi che sia stato un festival sicuro, in cui un film come The Quiet Son, uno come The Order, uno come Diva Futura e un altro come I’m Still Here, tutti crowdpleaser d’autore molto ben fatti ma non in grado di smuovere granché, sono il simbolo più evidente di un tentativo di andare più sul sicuro mentre si rende sempre più mainstream il concorso. Sappiamo bene che i festival, tutti, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle annate dipende da cosa è stato prodotto, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni (che hanno più di una voce sul posizionamento all’interno del festival). L’impressione è tuttavia che a fronte dell’evidenza di un anno più moscio di altri, anche Venezia abbia lavorato per rendere il concorso morbido e rassicurante, sicuro e privo di grandi contrasti.

Sigourney Weaver e il Leone d'Oro alla carriera © Matteo Suman

Come ne esce il cinema italiano

I film italiani invece, finalmente, hanno raccontato un’altra storia, anche in questo caso in accordo con un lavoro lento (e possiamo immaginare faticosissimo) del festival per contribuire a cambiare qualcosa, valorizzare e fare considerazioni.

Nonostante, il secondo film di Valerio Mastandrea, ha aperto Orizzonti pur non avendone le spalle grandi a sufficienza (e vengono i brividi a pensare a cosa sarebbe potuto succedere se fosse stato in concorso), mentre in competizione i cinque film italiani hanno mostrato una certa vitalità nella differenza. Continua il grande processo di valorizzazione del cinema pop e mainstream ben fatto che Alberto Barbera ha iniziato dal 2016 (chissà se il caso di Lo chiamavano Jeeg Robot, del 2015, rifiutato da Venezia e finito alla Festa del Cinema di Roma con tutto il successo che è seguito, ha avuto un’economia in questo) con Diva Futura. È stato confermato lo slot per il film d’autore tradizionale con Campo di battaglia di Amelio, si è visto il cinema italiano internazionale più rischioso e ambizioso con Queer e quello emergente con Vermiglio, opera seconda di Maura Delpero, e qualcosa da Rai Cinema come Iddu: l'ultimo padrino (che sembra essere stato rifiutato da tutti i festival precedenti e, avendolo visto, non si fatica a crederlo). Chissà se Iddu conta come film che racconta l'identità nazionale e le grandi figure storiche italiane, cioè il profilo dei film che con la nuova legge sul tax credit hanno più facilità a ricevere finanziamenti... È effettivamente un’immagine delle anime del cinema italiano più ambizioso di oggi.

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