Festival di Venezia 2022: una delle edizioni più vedibili e meno rischiose che si ricordino

Il trionfo del crossover tra arthouse e mainstream, la Mostra di Venezia ha ribadito una visione di cinema e di pubblico

Critico e giornalista cinematografico


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Il nostro commento alla premiazione del Festival di Venezia

Venezia si muove sempre di più verso il pop, da anni. Riconosce sempre di più che il cinema d’autore moderno è cinema di genere, che flirta con le strutture, le figure e le idee mainstream (The Eternal Daughter, Bones And All, Athena, Oltre il muro, Argentina 1985 ne sono esempi interni al concorso). Per la prima volta da diversi anni nella lunga permanenza al Lido le esperienze cinematografiche martorianti, i film di grande povertà di linguaggio ma altissime pretese di boria non si sono quasi visti. Il disastro di Un Couple di Wiseman è stato il capro espiatorio.

Non si sono quindi visti film terribili e punitivi ma in compenso hanno latitato anche le esperienze eccezionali. Festival sempre più mainstream e in un certo senso più quieto. Spettatori certamente più soddisfatti, cinefili anestetizzati in un angolo. Non è un caso ma una visione di mondo e di pubblico, un sostegno ad un certo tipo di produzione e ambizione. Se Athena almeno ha mostrato un desiderio di tirare all’estremo le potenzialità della macchina-cinema, di fare fantasy alla Peter Jackson dentro un quartiere popolare francese, di partire dal poliziesco per arrivare a Shakespeare con un desiderio di grandezza da George Miller, Jafar Panahi ha portato un film così sensibile e dalla schiena dritta mentre e Alice Diop è stata la sorpresa che tutti speravano, gli altri film del concorso erano scelte sicure, progetti industrialmente di ferro, vendibili, spendibili. E si può dire lo stesso del fuori concorso (nonostante avesse Lav Diaz). Barbera non teme di inimicarsi la minoranza rumorosa, cioè la cinefilia più vecchio stampo, retrograda e dai paraocchi giganti, quella che non si innamora dei mutamenti ma pretende di vedere quel che pensa di dover vedere. 

Scalcagnata semmai è stata la rappresentanza italiana (eccezion fatta per Bones And All) che avrebbe beneficiato di una “mossa Piuma”, cioè l’inserimento spiazzante di un titolo commerciale. Quello slot se lo sono preso i francesi con I figli degli altri e Les Miens, mentre Siccità, che sarebbe potuto essere quel film lì, non ha trovato spazio. Impossibile rinunciare a Pallaoro (evidentemente un pallino di Barbera, un cineasta che Venezia ha deciso di portare in alto) e a Chiara (Susanna Nicchiarelli, anche lei una creatura di Venezia, mandarla altrove sarebbe un errore)  o ovviamente a Guadagnino (unico realmente appetibile). Era allora Il signore delle formiche di Gianni Amelio a dover lasciare il posto a Siccità ma è un progetto che comprende Rai Cinema e necessita di quella spinta per avere un senso. Così il miglior film italiano è andato fuori concorso (e un altro si è visto alla Settimana della critica, Margini).

I premi

Erano quasi la metà del totale i film in concorso parlati in inglese, 10 su 23. Addirittura due di questi italiani (Monica e Bones And All), era facile immaginare quindi che sarebbero stati molto rappresentati tra i premiati. Ma 6 premi sugli 8 totali a film in lingua inglese, in linea di massima contenenti star di Hollywood, è oltre ogni aspettativa. Julianne Moore non ha mostrato un sguardo proprio variegato e anzi uno estremamente sensibile a ciò che già conosce. I film premiati poi, una volta tanto, sono difficilmente discutibili, tutti meritevoli ma anche tutti scontati. In questa premiazione non c’è stato nessun rischio, nessuna ambizione, nessuna voglia di provare a vedere il cinema di domani. Che pure c’era in concorso.

Con l’esclusione notevole di Alice Diop e il suo Saint Omer, la cerimonia di premiazione ha ribadito quel che sappiamo e consacrato o chi era in credito da tempo o chi da sempre merita. È stato così per Guadagnino, che in una premiazione tutta anglofona trova il premio alla miglior regia (metafora perfetta di quanto questo autore italiano eccezionale si trovi più a suo agio nel dialogare con la mentalità americana); è stato così per gli attori, due colonne di Hollywood come Colin Farrell e Cate Blanchett; è stato così per Martin McDonagh, già vincitore di Oscar. Unico non anglofono a farsi strada tra questi colossi oltre alla Diop è stato Panahi, con una storia personale, un debito politico, un senso di solidarietà impossibili da ignorare.

Il premio meno comprensibile è stato forse il più umanamente condivisibile, cioè il Leone d’oro a Laura Poitras per un documentario che è cosa da poco anche nella sua personale filmografia, è stato un colpo di fulmine commovente per Julianne Moore. In molti hanno riportato delle sue lacrime copiose dopo la proiezione. E quindi va così, la storia è piena di premi dati sull’onda dell’emotività, con un po’ di fortuna questo Leone aiuterà Laura Poitras nella sua opera incredibile di documentazione delle persone che si battono contro stato e istituzioni per finire quasi sempre schiacciati (mostruosi i lavori su Snowden e Assange, con immagini che ha solo lei).

Vivaticket

A festival finito si può infine fare il punto sul sistema informatico di prenotazione dei posti in sala. È una questione che non interessa a nessuno se non alle persone che vanno al Lido, che tuttavia sono sempre di più e, per interesse e volere della Mostra, hanno sempre più spazio e proiezioni per sé (una nuova sala, Corinto, è stata creata apposta dopo quella Giardino diversi anni fa). La fine del sistema classico, quello delle file, in cui si poteva anche stare in piedi ad attendere a partire da 45 minuti prima di una proiezione, è una benedizione e non c’è sveglia futile alle 7 che non valga l’eliminazione di questa pratica medievale. Certo però tutta l’indulgenza del mondo non spiega come sia possibile che al terzo anno ancora nessun festival tra i maggiori abbia capito come evitare le congestioni. Non ci riesce Cannes e non ci riesce Venezia. Il passaggio a VivaTicket faceva sperare bene (o almeno faceva sperare bene chi non conosce il mondo dei concerti e i problemi che la piattaforma causa regolarmente), invece non è stato diverso dal precedente.

Dove sia il problema è difficile dirlo da fuori. Come mai non sia possibile evitare il crash nel momento in cui moltissime persone tutte insieme si collegano (cosa che regolarmente avviene i primi giorni, superati i quali il sistema va liscio) è un mistero. La Biennale ha provato a risolvere cambiando gestore, cambiando modalità (prenotazioni tutte insieme ma ogni due giorni) e anche ricalibrando gli orari a partire da un certo punto. Eppure ancora non è l’esperienza utente senza problemi che sembra scontato debba diventare (impensabile l’idea di non riuscire ad entrare in un film dopo ore di attesa). Aspettiamo la prima edizione a tutta forza e massima capienza della Berlinale per scoprire quale sia la maniera “giusta”.

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