Festival di Venezia 2022, la classifica: i migliori e i peggiori film che abbiamo visto
La classifica senza vie di mezzo dei film migliori e peggiori visti a Venezia 2022, ottenuta aggregando le opinioni della nostra redazione
I film migliori e quelli peggiori visti al Festival di Venezia 2022
I MIGLIORI FILM VISTI A VENEZIA 2022
Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh
Strappando continuamente risate grazie ai dialoghi tra i compaesani e i protagonisti e alla recitazione di un paranoico Colin Farrell (che già solo con la sua camminata e il suo sguardo perso provoca una certa ilarità), Gli spiriti dell’isola costruisce un sottile crescendo di eventi consequenziali e caotici in cui è proprio l’assurdità di futili motivi a costruire un quadro perfettamente a fuoco e grottesco. Tra cesoie, pinte di birra scura e animali che sembrano provare pietà per gli esseri umani, lo spirito dell’isola (rappresentata da una vecchia Banshee, figura del folclore irlandese) sembra orchestrare in un silenzio divertito questa favola morale dagli esiti inquietanti.
Athena di Romain Gavras
L’azione di The Raid incontra il gusto di Mad Max per l’adrenalina e la scala epica del Signore degli anelli. Athena è un film immenso, che pretende il massimo da se stesso. Cioè di essere grande sin dalla sua partenza, con un piano sequenza da non credere, di pura magia cinematografica. Una vetta tecnica irraggiungibile. Da lì però il film raddoppia in un altro modo. Inizia a crescere sempre di più il racconto, con la posta in gioco già altissima, che si supera continuamente e, mentre lo fa, attraversa tutti i generi dell’azione.
Tàr di Todd Field
Tár è un film potente e complesso proprio per la sua capacità di produrre discorsi acuti sulla contemporaneità più scottante: siamo intorno e al tempo stesso oltre il #metoo, che è solo la superficie. Todd Filed esplora infatti le implicazioni del potere in un senso più ampio, usando una dinamica coercitiva specifica (quella sessuale) per parlare di autorevolezza e autorità, due concetti che bussano alla porta nel momento in cui un’accusa sembra già una prova di colpevolezza, mettendo a dura prova la moralità di chi guarda.
The Whale di Darren Aronofsky
È come se Darren Aronofsky avesse deciso di adattare la piece teatrale di Samuel D. Hunter solo dopo aver scoperto Brendan Fraser. Sotto un’imponente trucco, non sempre perfetto, gli occhi dolci dell’attore rendono Charlie un personaggio fragile mai vittima o vittimistico. Perfetto per come passa da un estremo all’altro senza essere mai istrionico. Il suo Charlie è infatti una persona colta, autoironica e sempre presente a se stessa, eppure disperatissima.
Argentina 1985 di Santiago Mitre
La chiave per la brillante riuscita del film risiede nella sapiente scelta, da parte di Mitre, di raccontare una storia ben nota, più volte trasposta sullo schermo (tornano alla mente Garage Olimpo e Hijos di Bechis, così come Il Segreto dei Suoi Occhi di Campanella) con toni del tutto freschi e nuovi. Sin dalle prime scene, Argentina 1985 si scrolla di dosso la polverosa patina della pedissequa ricostruzione filologica in favore di un’atmosfera più lieve e briosa; una scelta eccelsa e sempre coerente, che costella l’opera di Mitre di un umorismo frizzante, eppur sempre mirabilmente calibrato.
Siccità di Paolo Virzì
Questo film che fa riferimento ad un genere che non viene dalla nostra tradizione e che tuttavia è un lungometraggio che poteva essere scritto, diretto e interpretato solo e unicamente in Italia, racconta l’essere farsa della tragedia e gli sforzi inascoltati dei pochi a fronte della rumorosa cialtroneria dei molti, delle situazioni che paiono non cambiare mai e di noi, che balliamo sopra tutto ciò, che non smettiamo di essere noi durante le tragedie, che ci minacciamo di morte, ci uccidiamo ma anche ci offriamo dei panini mettendo un attimo da parte il fucile, che ci facciamo scherzi terribili, ci baciamo e ci riuniamo o non ci riuniamo abbracciando con un impeto vitale così desiderabile e sopito il grottesco che ci circonda, fingendo di non vederlo.
I PEGGIORI FILM VISTI A VENEZIA 2022
Don’t Worry Darling di Olivia Wilde
Olivia Wilde sembra replicare tutto quello che è assodato nel linguaggio cinematografico americano, selezionando sempre le soluzioni più dirette e semplici (la nuova arrivata vestita di bianco quando tutte sono vestite di nero, un altro vestito bianco più avanti sporcato di sangue per accrescerne il valore simbolico). Con questo armamentario semplice però Don’t Worry Darling non fa un lavoro complesso, anzi. Più il film avanza e svela la sua realtà, più sembra che la recitazione si faccia dozzinale e scarsamente curata e che la messa in scena regredisca fino ad un finale dalle soluzioni quantomeno discutibili.
Un Couple di Frederick Wiseman
Un Couple quindi stanca prestissimo e anche il collage di testi creato da Wiseman e Boutefeu stessi non riesce mai a catturare. L’unica cosa che rivela questo film, paradossalmente, riguarda i documentari passati. Guardando Un Couple è evidente più che mai come Wiseman in fondo abbia sempre ripreso delle performance, cioè abbia guardato gli esseri umani al lavoro come artisti che mettono in scena qualcosa, con quel tipo di interesse, riuscendo a farceli apparire magnetici come star. Come del resto è evidente che il suo interesse è sempre stato sulla luce e come invada gli ambienti, una passione per la chiarezza e i colori che sa creare quasi da Norman Rockwell. Qui che tutto ciò riesce meno ed è più maldestro è impossibile non notarlo.
Dead For a Dollar di Walter Hill
È davvero difficile riuscire a far recitare male un attore del calibro di Christoph Waltz, eppure Walter Hill riesce malauguratamente anche in questo. Il motivo principale è che la storia in sé non ha alcuno studio di personaggi ed è un continuo blaterìo in cui gli attori si ripetono a vicenda ciò che stiamo già vedendo (“L’hai ucciso!”, “è morto!”), con un effetto di ripetitività e vuotezza sconcertante.
Bardo di Alejandro Iñarritu
Proprio questa rassegnazione, colorata con le pennellate della commedia, è ciò che distingue il protagonista, succube e inerme di fronte alle accuse di servilismo e ipocrisia che gli vengono fatte dai suoi compatrioti. Il fatto che l’onirismo in chiave politica impiantato da Iñárritu lungo tutto il film si appoggi su una base di conflitto tanto fragile (Silverio non si mette mai davvero in discussione, semplicemente va avanti a camminare) è ciò che purtroppo rende Bardo un film incapace di realizzare la sua volontà. Vuole essere graffiante, ammaliante, emozionante, mentre invece non fa che ridurre la problematicità dell’identità messicana – l’essere una terra colonizzata, di migranti e di persone povere schiacciate dai potenti – a un personalismo spicciolo e più che altro urlato e non problematizzato.
Il signore delle formiche di Gianni Amelio
Non manca nessun punto dalla lista degli elementi del “cinema di papà” dei nostri anni, incluso il più scontato parallelo tra la vita del protagonista e la sua professione, cioè lo studio delle formiche. Metafore così meccaniche e prevedibili da rendere subito il film uguale a mille altri, impedendogli subito di avere un senso suo vero e personale, dolori raccontati in maniere così smaccate da depotenziare qualsiasi empatia, come quando la madre di Braibanti si trascina fino al centro di una piazza per accasciarsi come sotto ad un immaginario riflettore dopo aver letto una scritta sul muro ingiuriosa nei confronti del figlio.
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