The Fast and the Furious: Tokyo Drift è sperimentale e sottovalutato
The Fast and the Furious: Tokyo Drift è un unicum all’interno della saga, e meriterebbe più amore, soprattutto grazie a Justin Lin
Questo articolo fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla famiglia l’ho imparato da Fast & Furious
Il primo Fast & Furious era, be’, un film di macchine e un thriller alla Point Break; il secondo sostanzialmente ripeteva la stessa formula e aderiva allo stesso genere, ma con meno carisma. The Fast and the Furious: Tokyo Drift, invece, oltre ad avere il titolo più scomodo dell’intero franchise guarda anche a modelli diversi. È Karate Kid, o ancora meglio Willy il principe di Bel Air più estremo: c’è un giovane protagonista ribelle e sfacciato che si mette nei guai, e la mamma preoccupata gli dice “vattene a Tokyo, dove vive il mio ex marito e tuo padre, militare in congedo”. Qui il nostro eroe Sean Boswell avrà una serie di avventure e disavventure con la piccola criminalità locale, ma quasi mai direttamente: Tokyo Drift è un teen movie nel quale il cattivo di turno non è il capo della yakuza locale, ma il suo nipote adolescente e un po’ tonto.
E quindi tutti i problemi, tutte le storiacce e gli inseguimenti e anche le mazzate che volano in The Fast and the Furious: Tokyo Drift sono ingentiliti e parametrati al fatto che stiamo parlando di liceali che giocano a fare i grandi. Da un lato questo indebolisce il film rispetto ai predecessori, perché la posta in gioco è più bassa e l’investimento emotivo sui personaggi (ci torniamo) lo è ancora altrettanto – è il genere di film che ha bisogno di dedicare l’intero primo atto a presentarci un nuovo protagonista, la sua personalità e le sue motivazioni. Dall’altro impedisce a questo terzo capitolo di essere un’altra copia dei due precedenti: stiamo parlando di un romanzo di formazione nel quale il protagonista all’inizio non è bravo a fare quello che deve fare (guidare), dove nei primi due Fast & Furious sia Vin Diesel sia Paul Walker sono già guidatori provetti, e hanno quindi due archi completamente diversi.
Se il povero Lucas Black è un buco nero, tutto quello che gli sta intorno invece brilla di luce propria, rigorosamente al neon. Tokyo è un fondale clamoroso contro il quale ambientare gare di abilità alla guida, e il film arriva abbastanza in là nella costruzione della mitologia di F&F da potersi permettere di inventare una città parallela nella quale la polizia neanche ti insegue perché ha la macchina troppo lenta, e il resto della cittadinanza sembra quasi divertirsi a fare da ostacolo o da sparring partner in queste infinite corse notturne. Ogni garage, ogni locale notturno è una festa visiva e anche sonora (la OST potrebbe essere la migliore dell’intero franchise), e visto che il tono è mediamente più spensierato Tokyo Drift può permettersi di mettere da parte le classiche “corse da 10 secondi” dei due capitoli precedenti per dedicarsi invece al divertimento puro.
Lo suggerisce anche il titolo: le macchine veloci di The Fast and the Furious: Tokyo Drift non corrono, driftano. Ci perdonerete l’utilizzo di un forestierismo in vece del suo equivalente italiano (“Slittare”? “Andare alla deriva in modo controllato”?), ma è quello che fanno: driftano per strada e sui tornanti di montagna, sulle rampe di un megaparcheggio o in mezzo a Shibuya, driftano come se la vita fosse un videogioco, e lo fanno accompagnati dalle acrobazie di un signore in stato di grazia che proprio grazie a Tokyo Drift si fece notare anche nel mainstream dopo due film di dimensioni più contenute.
Justin Lin è l’arma in più di Tokyo Drift, che riesce a sopperire anche alla presenza-assenza di Lucas Black e del suo love interest interpretato da Nathalie Kelley. Lin ha la mano ferma e un’enorme fantasia nel comporre le inquadrature, e ha il giusto senso della misura anche nelle scene più caotiche: non esagera mai con i primi piani intensi dei guidatori, sa quando serve osservare un dettaglio e quando invece la scena ha bisogno di uno sguardo più ampio, “tiene” le inquadrature abbastanza a lungo da renderle leggibili ma non troppo a lungo da togliere ritmo, e ha una creatività superiore in fatto di stunt ed evoluzioni assurde. È quasi troppo bravo per quelle che sono le ambizioni ridotte di The Fast and the Furious: Tokyo Drift, e c’è un motivo se Neal Moritz gli ha affidato le chiavi del franchise da qui in avanti.
Visto che questo speciale parla dei film, ma anche della saga di Fast & Furious in quanto entità narrativa unica, chiudiamo segnalando che nel 2006 nessuno si accorse di quanto Tokyo Drift sarebbe stato importante per il Famigliaverso – che qui viene battezzato ufficialmente nell’ultima scena del film, che al tempo sembrava un po’ posticcia e che oggi, con il senno di poi, segna il vero inizio del Fast & Furious che conosciamo, questo mondo parallelo al nostro nel quale Vin Diesel è l’unico profeta e quindi non importa se muori in un’esplosione, se servi alla Famiglia troveremo il modo di farti tornare in pista. Ne parliamo tra una settimana.