Fast and Furious, prove tecniche di famiglia

Fast and Furious mostra già alcune delle caratteristiche tipiche del franchise, ma ha ancora bisogno di qualche correzione di rotta

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Questo articolo fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla famiglia l’ho imparato da Fast & Furious

A riguardarlo oggi, a 22 anni di distanza, con altri otto film più uno spin-off alle spalle, con la consapevolezza dell’esistenza dei capitoli 2 e 3, con quello che è accaduto a Paul Walker, a riguardare oggi Fast and Furious, dicevamo, viene da chiedersi se al tempo Rob Cohen, Vin Diesel e Neil Moritz avessero idea di quello che stavano creando. E viene anche da rispondersi che anche se l’avessero saputo probabilmente avrebbero fatto tutto allo stesso modo. Fast & Furious (con la &) si reinventerà e diventerà il F&F che conosciamo dal quarto capitolo; ma Fast and Furious (con la and) è, per essere “solo” un primo capitolo, già straordinariamente vicino a quello che sarà lo spirito del franchise, più di quanto non lo siano i successivi due capitoli.

Forse è scontato dirlo ma il merito è di Vin Diesel, e anche, forse soprattutto, di Dominic Toretto e di quello che rappresenta. Scritto tra gli altri da David Ayer, chiamato a correggere la sceneggiatura originale di Gary Scott Thompson ed Erik Bergquist a sua volta ispirata a un articolo di Vibe del 1998 che parlava di corse cittadine illegali, Fast and Furious è ancora un ibrido tra i modelli a cui vuole ispirarsi e il modello che diventerà a sua volta, e gran parte di questa seconda metà di discorso dipende da Vin Diesel e da quello che il suo personaggio rappresenta. La storia è ispirata ai classici del thriller con il poliziotto sotto copertura, da Donnie Brasco (citato da Paul Walker come uno dei motivi che lo spinse ad accettare il ruolo) all’ancora più ovvio Point Break: un detective si infiltra in una gang criminale e qui scopre di condividere la loro filosofia e la loro visione della vita e impara a diventare loro amico, fino a saltare la barricata e unirsi al gruppo.

La gang in questo caso è quella di Dominic Toretto, e “criminale” è forse esagerato: rispetto ai capitoli successivi, Fast and Furious era ancora interessato quasi esclusivamente al mondo delle corse clandestine, e il fatto che all’interno di questo mondo si muovano ricettatori e altre figure poco raccomandabili è più che altro la scusa per farci entrare una persona che non c’entra nulla e che funge quindi da avatar dello spettatore. Paul Walker siamo noi, e in un’ottica puramente narrativa e circoscritta a questo capitolo, che non tenga quindi in conto il resto del franchise, è lui il vero protagonista, quasi per necessità, proprio perché non appartiene al mondo che il film vuole raccontare e può quindi fornire (e fornirci) una prospettiva più neutra, e soprattutto incuriosita.

Fast and Furious è quindi un film thriller che tiene il suo lato thriller al minimo sindacale, e preferisce concentrarsi su quello che altrove sarebbe il contorno. C’è tutto il mondo di Toretto e delle corse clandestine, che Rob Cohen racconta con la finezza e la moderazione di una volpe affamata in un pollaio: di notte la sua Los Angeles si illumina di un arcobaleno di neon, si popola di centinaia di ragazze e ragazzi impossibilmente attraenti e tendenzialmente poco vestiti, e comincia a ruggire con i motori di decine di macchine che non vedono l’ora di impadronirsi delle strade. È un mondo quasi sospeso, nel quale non esistono passanti o altre macchine, esiste solo l’architettura urbana e un gruppo di persone che vogliono spingere le loro macchine oltre i propri limiti; gente per cui una curva a gomito, un palazzo di vetro o una cabina del telefono sono concettualmente la stessa cosa, cioè ostacoli da evitare, prove da superare.

Quando sorge il sole, poi, torniamo a quello con cui avevamo aperto il pezzo. Fast and Furious è un film d’azione ma che è anche capace di prendersi le sue pause e di farci conoscere la gente che siede dietro al volante. E la gang di Toretto non è diversa, per concetto, da quella che lo accompagnerà per il resto della saga. È la famiglia, baby, la famiglia che ti scegli e con la quale condividi tutto, la casa, le birre in giardino, il cibo, persino i litigi. È una famiglia patriarcale sulla quale Dominic regna incontrastato, ma anche matriarcale nella misura in cui la sua fidanzata Letty (Michelle Rodriguez) sembra essere l’unica persona in grado di tenerlo a bada e di avere un qualche ascendente su di lui. Ci sono tutte le figure tipiche di questo genere di gruppo, dalla sorella del capo, bella, innocente, concupita dallo scimmione del gruppo, quello che ha una cotta per lei ma per esprimerla sa solo usare le mani; c’è il nerd che agisce dalle retrovie, c’è un po’ di contorno per fare numero e poi, ovviamente, c’è l’intruso, che è il sasso nello stagno che dà il via alla rivoluzione familiare.

La famiglia di Fast and Furious, però, non è ancora la famiglia di Fast & Furious, nonostante svariati membri in comune. Il fatto che sopra abbiamo citato “un po’ di contorno per fare numero” è significativo: il film è ancora più interessato alle dinamiche ristrette tra lui, lei e l’altro (dove lui e lei sono fratello a sorella) che a quelle del gruppo allargato, e ci sono alcuni personaggi che hanno scritto in fronte “non mi vedrete mai più dopo questo film” fin dal primo minuto. Manca ancora quella sensazione di costante plot armor che avvolge i membri della Vera Famiglia™, la consapevolezza che questa gente su cui il film ti sta facendo investire emotivamente non verrà levata di mezzo alla prima occasione buona; che ogni morte sia una tragedia vera, un momento epocale, non un effetto collaterale di una gara a tre tra Toretto, la polizia e la gang rivale.

Il rischio più grande che poteva correre Fast and Furious ora che abbiamo visto dove può arrivare il resto del franchise era quello di invecchiare male, di fare una figura barbina rispetto agli eccessi dei capitoli dal V in avanti. In realtà proprio le sue scarse ambizioni narrative sono quelle che lo fanno uscire bene dal confronto: il primo capitolo del franchise è ancora un film piccolo, che vuole raccontare una storia tutto sommato semplice usando codici ben noti, e puntando molto se non tutto sullo spettacolo visivo. E d’accordo, non ci sono ancora salti spericolati o palazzi che partoriscono macchine, ma le (relativamente poche) sequenze d’azione reggono benissimo il peso del tempo, sono girate e soprattutto montate con una foga e un’energia che le rende dei bei pezzi di cinema anche se estrapolati dal contesto (e salvati quindi dal paragone).

I due capitoli successivi dimostreranno comunque che nel 2001 c’era ancora un po’ di confusione intorno al franchise, e che inizialmente Paul Walker sarebbe dovuto essere il fil rouge, non Vin Diesel. Ma di questo parleremo la prossima settimana.

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