L’evocazione – The Conjuring, tutta questione di esecuzione

L’evocazione – The Conjuring compie dieci anni e resta uno dei più credibili (anche se non particolarmente originali) eredi di L’esorcista

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L’evocazione – The Conjuring compie dieci anni

Una delle imprese più disperate nelle quali ci si possa imbarcare al cinema è girare un film di esorcismi. Ogni genere, ogni sottogenere ha il suo capostipite e il suo massimo rappresentante, ai quali ogni film successivo del filone deve necessariamente guardare. Ma nel caso del sottogenere “film di esorcismi”, il capostipite è anche il suo massimo rappresentante, e un film che cinquant’anni dopo è ancora imbattibile e insuperabile. Non che non ci abbiano provato in tantissimi, in certi casi avvicinandosi parecchio, ma in genere provare a fare meglio di Friedkin è una scorciatoia verso il fallimento. Ecco perché, in occasione del suo decimo compleanno, L’evocazione – The Conjuring continua a rimanere un film sorprendente.

James Wan non era un novellino quando Warner Bros. lo volle per dirigere L’evocazione – The Conjuring. Al contrario: aveva già diretto il primo episodio di Saw e seguito da vicino il resto della saga, e tre anni prima aveva avuto un notevole successo, di pubblico più che di critica, con Insidious. Non era ancora il gigante capace di maneggiare budget altrettanto enormi che diventerà negli anni successivi, tra Fast & Furious e Aquaman, ma era un nome credibile al quale affidare l’ingrato compito di girare non un film di fantasmi o di mostri o di entità demoniache, ma più esplicitamente di esorcismi.

Wan accettò la sfida nell’unico modo possibile: sapendo che non avrebbe avuto alcun senso provare a rifare L’esorcista o addirittura a migliorarlo. Il genere è da sempre codificato entro confini piuttosto rigidi per evadere dai quali serve una Visione con la maiuscola; Wan decise che la sua Visione era quella di puntare tutto sull’esecuzione, sull’artigianato, sulla messa in scena impeccabile, sulla fotografia, sulle interpretazioni del cast. Forma prima ancora che sostanza: così si potrebbe sintetizzare L’evocazione – The Conjuring, e non in senso negativo come potrebbe sembrare.

Wan sa fare bene tante cose fondamentali per un regista horror: costruire la tensione, centellinare i jump scare e l’uso del digitale, maneggiare gli effetti pratici, distribuire le scene madre lungo il corso del film così da dar sempre la parvenza di ritmo alto anche quando in realtà l’opera procede lenta e glaciale. L’evocazione – The Conjuring è un circo, o un tunnel degli orrori, nel quale la paura arriva sempre quando te la aspetti il che non ne diminuisce l’impatto. È un film fatto da uno che conosce le regole del gioco e che non si fa problemi a rispettarle alla lettera, non si sente sminuito dal fatto di stare confezionando del grande artigianato ma al contrario se lo gode, ritagliandosi qui e là qualche spazio più personale ma senza mai cedere alla tentazione di fare una rivoluzione concettuale senza averne i mezzi – a suo modo un approccio rivoluzionario in un genere composto per il 50% da film male eseguiti e per l’altro 50% da pessime idee.

Lo aiuta il fatto di conoscere bene l’horror anche al di fuori dei confini del sottogenere trattato. Wan non si fa problemi a prendere ispirazione anche da altre fonti, una su tutte Poltergeist: per gran parte dei primi due atti, L’evocazione – The Conjuring è un film di case infestate costruite su terreni dove sarebbe stato meglio non costruire, nel quale l’esorcismo è tenuto sullo sfondo, un’arma finale da sfoderare al momento opportuno. E Wan è anche uno che sa usare benissimo gli spazi, che gestisce gli interni come pochissimi nel genere (merito senza dubbio della claustrofobica esperienza di Saw), e per lunghi minuti si gode questa magione maledetta portandoci in giro per i suoi corridoi e i suoi sottoscala, e costruendo anche, per pura associazione di idee da subconscio collettivo, un legame fortissimo tra il seminterrato e il terrore. Che casa infestata sarebbe senza una cantina spaventosa?

E che casa infestata sarebbe senza una famiglia da infestare. Carolyn e Roger Perron si trasferiscono come da tradizione in una fattoria del Rhode Island insieme alle cinque figlie; e come da tradizione dei film di esorcismi sono una famiglia modello, senza grossi traumi o problemi latenti. Sono le vittime perfette per una possessione classica e senza metafore nascoste, innocenti e indifese: il Male se la prende con loro non perché attratto dai suoi simili ma perché affascinato da questa gente che non ha fatto nulla per meritarsi quello che accade nel film. Nel gruppo spiccano in particolare una ancora giovanissima (e non ancora armata fino ai denti come in The Princess) Joey King e Mackenzie Foy, che era appena uscita dal doppio trauma di interpretare la spaventosa Renesmee Cullen degli ultimi due Twilight; e mamma Lily Taylor, alla quale va l’onore delle scene più circensi.

Quello che fa la differenza, però, è ovviamente la coppia di demonologi composta da Vera Farmiga e Patrick Wilson e ispirata ai veri coniugi Warren, gli stessi che investigarono tra gli altri il caso di Amityville e il poltergeist di Enfield. Ed e Lorraine portano nel film la scienza, quella che in L’esorcista veniva presto sconfitta e che qui rimane invece fino in fondo l’arma più potente contro il maligno. L’approccio allo studio delle entità demoniache dei coniugi Warren è appunto scientifico, rigoroso, e parte dal presupposto un po’ Scooby-Doo che la maggior parte dei casi di presunta possessione (di una persona o di un luogo) abbia in realtà una spiegazione razionale. Il che non significa che i due non credano agli spiriti, anzi: solo, sono convinti di poterli affrontare con calma e sangue freddo, e che anche l’esorcismo sia solo un’ultima disperata risorsa.

Questa aderenza al metodo è utile a incanalare L’evocazione – The Conjuring lungo i binari dell’horror che cresce di intensità scena dopo scena; così che quando finalmente arriva il tanto sospirato esorcismo abbiamo già i capelli bianchi e le unghie rosicchiate, e ci chiediamo se davvero le cose possano andare peggio di così. Quello di Wan è un film che ti porta delicatamente ma con fermezza ad avere paura nei momenti giusti, e quindi a goderti ancora di più il climax e la risoluzione della vicenda. Si arriva alla fine con la sensazione di aver assistito alla storia giusta raccontata nel modo giusto: niente che non sia mai stato fatto prima, ma raramente con questa cura formale. C’è chi già al tempo sosteneva che fosse troppo poco; i sette, presto nove, film del franchise, e gli oltre due miliardi incassati finora, ci dicono che questa gente aveva torto.

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