Come mai Everything Everywhere All At Once è identico a Matrix?

Everything Everywhere All At Once tira in ballo molti film ma Matrix è il più saccheggiato, il raffronto tra i due spiega cosa è cambiato

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Somiglia a tante cose Everything Everywhere All At Once ma soprattutto a Matrix. Tante, ovunque e tutte insieme (questa andava scritta), perché ha mangiato tanti film diversi e ognuno degli universi paralleli tra cui salta è il mondo di un certo cineasta o proprio di un certo film, è un genere o uno stile del cinema. Non sono le realtà di Destino cieco o Sliding Doors (in cui accadono cose diverse ma sono filmate allo stesso modo), più quelle di diversi film di Tarantino. Come in quelli, tutto in questo film accade nei modi in cui quelle cose avvengono nei film, tutto risponde alle regole del mondo del cinema più che a quelle (piegate dalla fantasia) del mondo reale. Uno in particolare è però il film su cui basa gran parte dei suoi assunti: Matrix.

Gli elementi cruciali ci sono tutti a partire dalla fusione di elementi e stili del cinema orientale tradotti per un pubblico occidentale. Una protagonista che vive una vita insoddisfatta aspirando a qualcosa di più che non sa definire (ad un certo punto verrà proprio detto che conduceva la sua esistenza afflitta dall’idea che non tutto andasse come avrebbe dovuto) e che non sa cosa e dove cercare, una persona apparentemente come le altre che si rivela la prescelta. La cosa gli viene spiegata da qualcuno che viene come da un altro mondo e che la introduce alle sue nuove potenzialità mostrandogli prima le sue. Trattando il cervello come fosse un computer può scaricare delle abilità e quindi impararle (c’è proprio un menù a tendina da cui scegliere). La prima cosa che fa è di colpo imparare il kung fu e proprio le mosse e la maniera in cui le esegue non appena le ha imparate somigliano alla scena in cui Neo, alla fine del primo film, prende coscienza del suo statuto e riesce a vedere la matrice. Anche il macchinario che Waymond Alfa usa per connettersi e il fatto che altri lo aiutano davanti ai loro schermi sembra la versione rudimentale della tecnologia che viene usata in Matrix per uscire e entrare nella matrice.

Certo non c’è la grande allegoria della transizione tra sessi, il corpo come mero involucro e il fatto che ciò che è dentro non per forza somigli a ciò che è fuori, ma c’è il fatto di poter cambiare e migliorare attingendo ad un altrove (in questo caso gli altri universi) e ci sono anche proprio scene molto simili, come quella della fuga dall’autorità in un ufficio fatto di cubicoli, il nascondersi tra cubicoli venendo aiutati da remoto, fino addirittura ad momento in cui prendere coscienza di sé e, come Neo, fermare i proiettili che le vengono sparati.

Inoltre quello dei Daniels ovviamente non è un film con un rapporto stretto con il cyberpunk, con le macchine che si oppongono agli umani, non è un film in cui dei ribelli si riuniscono e non afferma che la realtà come la conosciamo è pura apparenza. Ha altri scopi, meno sofisticati e più semplici, come usare una grande costruzione di umorismo per raccontare i legami familiari alla cinese, la loro forza e la fatica nel sopportarli, ma anche il rapporto di una madre e una figlia in contrasto. Detto ciò è anche evidente come usi molto del film delle Wachowski per arrivare al proprio obiettivo, anzi che in generale usi proprio il cinema degli anni ‘90, la sua maniera di replicare stili e autori del passato, assemblando clichè e il già visto per creare qualcosa di nuovo ma in modo consapevole e ironico. Ridendo di ciò che sappiamo delle regole dei film.

Gli universi che ci vengono mostrati attingono più o meno dichiaratamente a Ratatouille, ai film di Wong Kar-wai come a quelli di Michel Gondry (le mani giganti) o a quelli di Quentin Dupieux (la parte con le rocce), quello in cui la protagonista sì allena nelle arti marziali non è un generico film di kung fu ma ha la fotografia dei flashback di Kill Bill e quella wuxiapian sembra replicare i toni notturni di La tigre il dragone (complice la presenza sempre di Michelle Yeoh).

I personaggi non si spostano tra universi, si spostano tra universi del cinema, assumono generi diversi fino al metacinema (la versione in cui è un’attrice famosa è praticamente la vita della vera Michelle Yeoh e include photocall e immagini vere di Michelle Yeoh alle prime dei film cui ha preso parte). Se quindi nel film non c’è una realtà vera e una finta come in Matrix, c’è quella reale e quella del cinema (i generi ma anche il fatto che Michelle Yeoh è un’attrice che interpreta un film). Quando la proprietaria di lavanderia è contattata dal Waymond Alfa esce dal mondo reale ed entra in quello postmoderno dei film, comincia a fare avanti e indietro con diversi immaginari cinematografici nella stessa maniera in cui Neo entra ed esce dalla matrice. E lo fa come spiegato più sopra proprio seguendo le regole di Matrix, imitandone scene e movenze, oltre a soluzioni di scrittura. È una parodia, una molto seria sia chiaro, ma ha proprio quell’atteggiamento: trasportare le regole di un film in un altro mondo. Matrix ma con il cinema.

Inoltre in Matrix, come in altri dei suoi anni, emergeva una sensazione da fine millennio statunitense che l’apparente assenza di grandi conflitti e pressanti problemi sociali nascondesse sotto il tappeto l’inquietudine. Quel film come American Beauty, Fight Club e altri raccontavano di persone ordinarie, con lavori ordinari, buoni stipendi e vite serene che scoprono un altro mondo, scoprono dei segreti o viaggiano in un’altra versione di sé per rispondere ad un’inquietudine che sentono nonostante tutto. Sotto il tappeto della tranquillità dell’amministrazione Clinton e del benessere ancora prospero striscia qualcosa. Non è il caso invece per Everywhere Everything All At Once, che venti anni dopo propone la storia di cinesi immigrati in difficoltà economiche in un contesto (che il film non menziona come non lo menzionavano quelli di fine anni ‘90) completamente diverso, in cui anzi paure e incertezze sociali sono ai massimi livelli.

I Daniels lavorano su temi più generici e tipici di molti altri film, sul ruolo della donna e sul contrasto tra nuovi e vecchi costumi. E lo fanno senza un’eccessiva originalità o senza un pensiero forte diverso dalla media. La madre non accetta che la figlia non sia come lei o come avrebbe voluto che fosse, non ne accetta l’omosessualità e si maschera dietro il suo di padre (cioè il nonno) per nascondere la mancata accettazione. L’inquietudine che sente è tutta personale e non sociale, vorrebbe essere stata altro nella sua vita e sente di avere un potenziale inespresso. Se qualcosa dicono le differenze tra Matrix e Everything Everywhere All At Once (a fronte della medesima architettura) è che i conflitti contemporanei sono affrontati e vissuti in maniere sempre più personali e private e meno sociali. Le storie in cui i problemi sono questioni condivise sono una larga minoranza mentre di più sono quelle in cui sono questioni personali che richiedono soluzioni ad hoc, su misura e non grandi cambiamenti di cui beneficino tutti.

Alla fine madre e figlia si riuniranno dopo aver sviluppato la capacità di tenere dentro di sé tutti gli universi nello stesso tempo, una specie di conoscenza totale di tutte le possibili versioni di se stessa. Se per la figlia la risposta a questa conoscenza è il cinismo e la disillusione, per la madre è invece la comprensione, il combattimento fatto non più per offendere ma per risolvere i problemi delle persone e, in ultima analisi, i loro. Non è proprio il massimo della raffinatezza, e una chiusa molto banale che tradisce un immaginario eccentrico solo in superficie ma poi molto standardizzato e convenzionale nel profondo. Tuttavia letto ad un altro livello è anche l’ennesima affermazione di impotenza del cinema contemporaneo. Neo guidava una rivoluzione per tutti, qui le protagoniste risolvono il loro piccolo problema di tasse e di relazioni con un po’ di sentimento.

Continua a leggere su BadTaste