Estasi come pre-apertura al Festival: è "il film di corpi" originale | Venezia 76

Con una forza non usuale nel cercare il piacere femminile Estasi è un restauro indispensabile e un film sorprendente

Critico e giornalista cinematografico


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C’è una locuzione abbastanza abusata nella critica cinematografica che è “film di corpi”, non è sbagliata né ridicola, solo molto utilizzata spesso anche a sproposito. Identifica i film in cui ciò che conta di più sono le reazioni, le posizioni e le relazioni tra corpi, come questi sono filmati, la consistenza che riescono a mostrare e come i loro istinti e le loro volontà siano più importanti delle decisioni della mente, spesso apertamente vincendole. La pre-apertura del Festival di Venezia di quest’anno ha mostrato uno dei “film di corpi” originali, uno dei primi: Estasi di Gustav Machaty.

Nell’introdurlo il direttore Barbera e il presidente Baratta hanno ricordato come mai sia stato scelto proprio questo film. Aveva partecipato ad una delle primissime edizioni della mostra (vincendo anche il premio per la miglior regia) e da lì diede scandalo in tutto il mondo perché era il primo (o uno dei primi) a contenere un nudo di donna integrale. La storia è complicata perché l’attrice Hedy Kiesler (in seguito ribattezzatasi Hedy Lamarr per trovare successo in America) pare non sapesse che era scritto nel suo contratto che avrebbe dovuto girare un nudo integrale, motivo per il quale poi il marito (un potente mercante d’armi con legami sia con i nazisti che con il resto dei paesi) fece di tutto per comprare tutte le copie in circolazione. Non ci riuscì, il prurito fu più forte di tutto. Nella cassaforte di Goebbels fu trovata una copia del film e Mussolini se lo fece proiettare.

Di Estasi esistono quindi tante versioni diverse, perché ogni paese tagliava e aggiustava come gli serviva, e non c’è negativo, dunque la cineteca Ceca che ha lavorato a questo restauro ha dovuto contattare gli istituti nazionali di 16 diverse nazioni ottenendo la collaborazione di almeno 8 di questi per recuperare tutte le scene e cercare di mettere insieme un montaggio il più possibile fedele all’originale proiettato in Cecoslovacchia nel 1933 e quindi alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1934. Il risultato è che il film non è sempre “pulito”, alcune scene presentano vistosi graffi, il sonoro è tutt’altro che impeccabile e c’è una grande diversità di qualità tra sequenza e sequenza (senza contare una differenza lieve di formato che il restauro ha uniformato).
Ma non è questo il punto. Il punto qui è la filologia, l’aver rimesso a posto questo film di corpi cardinale che è anche un ponte incredibile (al pari di Tempi Moderni) tra muto e sonoro, tra machismo e proto-femminismo cinematografico, tra montaggio sovietico e trovate all’americana.

Estasi infatti attacca fortissimo come fosse un film hollywoodiano di Lubitsch, con una lunga sequenza muta (ma tutto il film è praticamente muto, esclusi pochi scarni dialoghi): marito e moglie appena sposati entrano nella loro casa, lui più anziano di lei, lei vogliosa, lui precisetto e incline al sonno. Non combineranno niente e lei giocherellerà con la fede levandosela e mettendosela per la noia.

C’è tutto e soprattutto c’è già l’idea centrale di Estasi, ovvero trovare molti modi diversi di mostrare il corpo inquieto di una donna che desidera godere, che ha bisogno di godere legittimamente!

Estasi inizia mostrare il desiderio di godere già sul talamo nuziale, sul quale la protagonista è sola, con le posizioni del suo corpo, con le cosce che si strofinano in una vestaglia di seta. Lo farà poi con gli elementi della natura, come una brezza che le agita il vestito leggero e il suo volto inquadrato con un fantastico cielo terso dietro (le inquadrature dal basso sono una costante nel film) e il vento che le muove i capelli mentre aspetta, spera, desidera. Lo fa poi nella grande scena di nudo (in realtà solo una volta a mezzo busto e poi integrale da così lontano che bisogna fidarsi) con il lago, il montaggio alternato dei cavalli in amore e le frasche che coprono poco la nudità o con una salopette sotto la quale sappiamo essere nuda. Ma il meglio lo dà quando finalmente entra in scena il rude e cavalleresco lavoratore destinato evidentemente a soddisfare il desiderio. Lui la vede accidentalmente nuda e l’aiuta con una storta al piede. C’è un lavoro di montaggio tra espressioni, primi piani, linguaggio del corpo e un piede di lei premuto contro il petto di lui mentre le sistema la storta, che non solo stabilisce i ruoli ma racconta sempre e solo il punto di vista del corpo di lei, la sua tensione verso la possibile soddisfazione.

In un accoppiamento abbastanza usuale la natura è usata per richiamare il risveglio dei sensi e il bagno al lago è l’espediente che giustificare il nudo. Quello che non è usuale invece è proprio il racconto del diritto al godimento della donna. Lei infatti, una volta maturata la decisione, il suo orgasmo se lo va proprio a conquistare presentandosi in casa del rude lavoratore. E sarà un tripudio di montaggio di dettagli: dita mordicchiate, respiro affannoso e lenzuola strette fino all’apice con la manina lasciva che pende dal bordo del letto e il filo di perle che nello spasmo cade a terra fino alla sigaretta post-coito.

Il desiderio che all’epoca al cinema era piacevolmente condannato se non semplicemente ignorato, qui è davvero il protagonista per poco più di metà del film. Addirittura Gustav Machaty ci tiene a rappresentarlo tramite l’allegoria dei cavalli che si attraggono e non riescono ad essere contenuti dagli uomini nella furia di unirsi. Il piacere della carne come piacere animale, impossibile da contenere.

Il lungo finale è la parte meno a fuoco del film, si sposta sulla gelosia del primo marito, su un intreccio più banale e decisamente meno carnale, fino a culminare dalle parti del melò. Curiosamente infatti sarà lo stesso corpo femminile che ha goduto affermando il suo diritto a farlo che poi dovrà anche accogliere su di sé il dolore dell’espiazione. Come in un melodramma la protagonista per confermare il suo statuto di modello positivo dovrà espiare, deciderà di lasciare l’uomo per cui sentiva la forte attrazione rinunciando all’amore e partendo senza salutarlo. Che fa pensare viste poi le fortissime condanne del mondo religioso ad un film che invece ottempera perfettamente ai meccanismi di colpa ed espiazione della stessa.

E se per tutto il film mostra un montaggio originale e mai domo (ma non sempre a fuoco o davvero utile) che non può non ricordare il cinema sovietico di una ventina d’anni prima, nel finale parte un delirio tra il futurismo di macchine, motori, inquadrature della velocità e delle ruote che girano (ma attenzione! Mario Camerini già lo aveva fatto un anno prima in Gli Uomini… Che Mascalzoni!), è proprio nella chiusa che ribalta tutto il raccontato con un’ode smaccata al lavoro, ai lavoratori e ai corpi maschili non belli e non attraenti ma nudi e forti che piegano la terra (da che il film invece è stato una celebrazione dell’ozio e del piacere borghesi, benestanti e abbienti), che segna la vera aderenza con il cinema sovietico.

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