Escape Room: perchè l'horror vuole che saldiamo i conti con il nostro passato?
Escape Room riporta in sala qualcosa che già Saw e Final Destination avevano sperimentato con successo: l'horror giustizialista
A partire da questo click nel cervello dei protagonisti nascono film come Saw - L’Enigmista e adesso Escape Room. In fondo anche Final Destination, con il suo spunto fuori dalla grazia di Dio (per via di un sogno premonitore una classe di studenti non sale su un aereo destinato ad esplodere, quindi elude la morte, ma da quel momento la morte stessa li insegue per farli fuori in maniere casuali e imprevedibili), era centrato sul saldare un conto in sospeso ed evitare una morte decisa dall’alto.
Adottando il punto di vista delle vittime non ci saranno malefatte che resteranno impunite, e tutto ciò che di sbagliato, brutto, cattivo e meschino ci siamo lasciati dietro non è morto con il passato che lo contiene ma tornerà a chiedere il saldo. È una paura strana e sottile con la quale l’horror gioca da tempo, non è infrequente anche nei film di decenni fa che qualche personaggio scoprisse a metà della storia di avere un conto aperto, o di aver influito nel suo passato nella genesi della minaccia che rischia di ucciderlo. Tuttavia Saw ha istituzionalizzato questo processo filmico.
Sembra la tipologia di horror perfetto per la prima generazione che ha internet a propria disposizione fin dall’adolescenza, la prima i cui peccati e i cui misfatti online non li abbandoneranno mai. Se anche i registi di Hollywood sono cacciati per vecchi tweet e se una foto messa online può facilmente essere replicata e pubblicata in luoghi della rete al di fuori del nostro controllo (e quindi circolare anche oltre la nostra volontà), questi film horror hanno sempre al centro qualcuno che tutto ha visto e niente ha dimenticato. La permanenza inesorabile del passato che pensavamo esistesse solo nella nostra testa si fa prova da superare e ogni mastermind è un’altra incarnazione della società, di tutti quelli che da cui temiamo di essere giudicati. Siamo noi, come sempre del resto, il nemico più temuto.
Rispetto allo slasher classico, in cui lo spargimento di sangue anche creativo quasi mai è meritato, anzi si accanisce contro chi si gode la vita con lo scopo di identificare vittime e aspirazioni degli spettatori, in questi film c’è una sorta di spostamento del punto di vista. Rimaniamo invariabilmente legati ad un protagonista che cerca di non morire, com’è normale che sia, ma non viviamo le molte altre morti che costellano la trama come un evento traumatico, il film stesso ci invita a moderare il dispiacere precisando quanto di male queste persone avessero fatto. Non ci viene imposto ma in un certo senso ci viene proposto di aderire alla logica del killer. Freddy Krueger uccideva come ripicca alla propria morte (ma se la prendeva con le persone sbagliate) in questi film invece le persone giuste vengono colpite e il film sostiene che se lo meritino.
Se l’enigmista adorava costruire macchinari mortali, la morte di Final Destination si divertiva ad arrivare in modi impossibili, le Escape Room sono invece il trastullo di qualcuno che guarda tramite videocamere di sicurezza, un gioco di gatto con il topo fondato sui meccanismi della cucina: schiacciare, cuocere, infilzare, friggere, congelare e affogare. Si muore come alimenti in Escape Room, come pezzi di carne in balia di ricordi indigesti. Le stanze cucinano le vittime lentamente, le lasciano cuocere nella loro paura, aspettano che siano pronti dopo aver marinato nella tensione e alla fine arriva la morte.