Elvis è come una canzone: ha ritmo, fa sognare e si può riascoltare più volte
Elvis è estenuante come un concerto, si arriva alla fine stanchissimi, ma con la voglia di ritornare in quell'esperienza musicale
Ci sono film che si guardano una seconda volta per la storia, i personaggi, gli effetti speciali. Elvis si riguarda per la sensazione che dà quando per la prima volta appare sul palco Austin Butler nei panni del cantante e per tutto quello che succede dopo, quasi fino alla fine. Perché il film di Baz Luhrmann è come una canzone, o meglio un lungo medley, che parla solo attraverso le sensazioni. È istinto. Il suo metro di valutazione è una scarica di energia che si origina dallo schermo e che arriva in sala. È un concerto cinematografico, che parla il linguaggio dei film, e resta dentro come la musica. Prima sveglia con il suo ritmo incessante (alzi la mano chi non ha pensato che la proiezione avesse l' 1,25x attivo). Poi fa sognare, perché quel ritmo non smette fino a che il suo protagonista riesce a reggerlo, e noi siamo leggermente distanti. Tra il pubblico. Come il pubblico. Ad assistere alla luce di un astro che nasce e muore.
Alla fine di Elvis si esce stanchissimi
Si può essere stanchi, sfiniti, alla fine di una proiezione eppure avere anche una nuova energia, una carica diversa. È un po’ quello che si prova guardando Elvis. La durata è di quelle fiume: due ore e quaranta. Dopo i primi, perfetti trenta minuti di frenesia e di montaggio, si è però già sfiniti dalla quantità di informazioni buttate sullo schermo. Come andare in un parco a tema e fare come prima cosa l’attrazione più adrenalinica. Il resto può essere altrettanto bello, ma darà l’impressione di trascinarsi imitando il suo inizio. Alla fine del film si arriva comunque senza troppi problemi, sentendosi fisicamente coinvolti in una maratona.
Un plauso va tributato ad Austin Butler che sembra nato apposta per vestire quei panni. Se c’è una differenza tra imitazione e interpretazione questa la si può ritrovare nella distanza che c’è rispetto a quello che ha fatto Rami Malek con Freddie Mercury. Butler non è perfetto, a volte cade anche lui (soprattutto nelle scene in età avanzata) nella trappola della maschera. Regge però sulle sue spalle un film con cui deve essere stato difficilissimo entrare in sintonia sul set, data l’importanza del montaggio nella sua forma finale.
Una lettera dal futuro per mostrare il presente di Elvis
Qui arriva la prima scelta insolita del film: il colonnello Tom Parker. La sua voce incornicia tutto il film. Una figura controversa portata allo status di villain. Sotto un bizzarro e un po' ridicolo trucco Tom Hanks fatica ad andare a ritmo. Lui sì, a differenza di Butler, sembra sperduto senza sapere bene che tono toccare. Talvolta grottesco, più spesso cerca di dare una profondità al personaggio che il film invece non ricerca mai.
Le dissolvenze incrociate, gli split screen, i raccordi sulle immagini e ancora i flashback, forward, le digressioni, sono le parti visibili del suo flusso di coscienza. Ha un ampio screentime, ma alla fine aggiunge veramente poco rispetto alla parabola umana. Ben più interessante è l’attenzione che Luhrmann tributa ad una delle prime forme di mercificazione delle star. Funzionano i contro campo sul pubblico, i cambi di abito, gli edifici e le auto, meno le smorfie di Parker.
Gli serviva però questa prospettiva per dare un sapore di futuro a questo film sul passato. Si leva di torno cioè il problema della consapevolezza della leggenda di Elvis. Il narratore parla dalla nostra prospettiva. Di chi sa, di chi ha visto. Si passa così veloci su molti aspetti che avrebbero permesso innumerevoli strizzate d’occhio: la famiglia, Graceland, le composizioni e le esecuzioni di brani che hanno fatto la storia della musica. È tutto normalizzato (per quanto possibile in un film così su di giri) si evita di sottolineare con l’evidenziatore l’ovvio. In un film così marcato, sarebbe stata una scelta distruttiva.
Cosa rimarrà di Elvis dopo gli Oscar 2023?
Sia che vinca o che perda, rimarrà sicuramente Austin Butler. Il ragazzo ha ancora molto da dimostrare: cioè di saper interpretare con la stessa qualità un altro personaggio. Deve liberarsi da questa interpretazione e applicare il suo talento ad altro. Avrà sicuramente occasione di farlo in Dune: Parte seconda in cui è stato scritturato per Feyd-Rautha Harkonnen.
Il successo al botteghino ha poi confermato la buona salute dei biopic musicali come alternativa ai cinecomic per richiamare un pubblico mediamente più adulto. Ha riportato in sala chi ancora non era tornato dopo il Covid (ne abbiamo parlato qui) riconfermando l’affetto verso questi prodotti dopo il boom di Bohemian Rhapsody.
Come capita con i film così cinematografici come Elvis, la visione in home video ne esce un po’ svilita (chi ha avuto la possibilità di ascoltarlo con un buon impianto Atmos sa cosa intendo) e perde un po’ anche quella dimensione di evento da vivere con altre persone. Un grande concerto insomma, che si lascia vedere e rivedere meglio in compagnia.
Ogni film di Baz Luhrmann è un evento (se non per la qualità intrinseca, lo è almeno per il ritmo con cui li produce). Elvis allora è un vero happening cinematografico che nessuno si aspettava. In questa corsa per il miglior film agli Oscar 2023 si colloca vicino a Top Gun e Avatar. Due film che hanno saputo ricordare a tutti che cosa può essere il cinema sul grande schermo. L’hanno fatto provando a portare al massimo tutti i comparti, dedicandosi con orgoglio allo spettacolo, alla seduzione, alla trasmissione di energia. Un po’ come Elvis.
Potete continuare a leggere il nostro approfondimento ai candidati a miglior film agli Oscar 2023 cliccando qui.
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