È stata la mano di Dio: la chiave di lettura del film è il discorso degli Oscar di Sorrentino
Paolo Sorrentino ci aveva già raccontato È stata la mano di Dio molti anni fa durante il discorso agli Oscar per La grande Bellezza
“Grazie a Toni Servillo e Nicola Giuliano, grazie agli attori e ai produttori. Grazie alle mie fonti di ispirazione, Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona, grazie a Roma, a Napoli e alla mia famiglia”.
I Talking Heads e Martin Scorsese furono due figure cardine di quel periodo del regista. This Must Be The Place era un film tributo all'omonima canzone di David Byrne, il quale aveva anche partecipato nel ruolo di sé stesso. La prese come parte della colonna sonora e la mise al centro della storia come grande omaggio alla sua band del cuore (e non solo).
Tutto il resto viene spiegato da È stata la mano di Dio. O meglio, siccome il film è profondamente autobiografico, è inevitabile che tanti elementi costituitivi della persona del regista siano entrati nell’opera. Siamo tutti fatti da piccoli pezzi esterni a noi. Luoghi, si dice nel film, ma anche persone e momenti, idoli, che si impilano uno sopra l’altro a costruire la personalità.
Fabietto Schisa non può fare altro che osservare. Lo fa continuamente con voracità. Ha uno sguardo carnale da adolescente. Vuole possedere quello che guarda, le ragazze di cui è innamorato, ma che ancora non ha imparato a conoscere. Gli occhi stanchi dell’attore Filippo Scotti lo fanno sembrare un accumulatore di esperienze, e di vita, sfinito dalla stessa. Non può evitare di stare leggermente in disparte e apprendere, cogliere le storie che lo spingeranno a “fare il cinema”. Solo una cosa gli è preclusa allo sguardo: il corpo dei genitori morti per una fuga di monossido di carbonio. Questa mancata visione lo tormenta dilaniandolo lentamente.
La mancanza diventa anche ricerca e voglia di catturare su pellicola una realtà migliorata dalla fantasia. Quella condannata e temuta in cui vive la zia Patrizia (Luisa Ranieri), rinchiusa poi in un manicomio come pazza. Fabietto ha di fronte una sorte ben diversa. Basta che non si disunisca, ovvero che resti fedele a tutto quello che il destino gli ha dato: gioie e dolori.
Uscendo dall’autobiografia e tornando nella forma del film possiamo capire quali siano gli elementi che vanno a costituire l’impalcatura di È stata la mano di Dio. Sono tutti nel suo discorso degli Oscar. “Toni Servillo e Nicola Giuliano”: la grande presenza e la rumorosa assenza. Il primo è infatti l’attore feticcio di Sorrentino arrivato alla settima collaborazione. Volto plastico del cinema italiano è modellato dalle esigenze sceniche aderendo perfettamente all’immaginario del regista. Qui interpreta il padre di Fabietto, ovvero la versione di finzione del padre di Sorrentino stesso.
Nicola Giuliano è invece lo storico collaboratore e fondatore della Indigo Film, la società con cui ha prodotto tutti i film tranne quest'ultimo. Una sospensione del rapporto consensuale e temporaneo dopo che è subentrato Netflix.
“Grazie alle mie fonti di ispirazione: Federico Fellini, e Diego Armando Maradona. A Roma e a Napoli”. Per la prima volta insieme in uno stesso momento e in uno spazio ben preciso: Napoli. La città che per Fellini era una vera fucina di volti e corpi per i suoi film, ma che frequentò ben poco come cineasta. Sorrentino piega la realtà creando una coincidenza temporale romantica (non ci sono tracce di un casting aperto a ridosso dell’arrivo del calciatore). Però veramente il fratello fece un’audizione per lui. E veramente “la mano di Dio” salvò Sorrentino dalla sorte tristemente toccata ai suoi genitori.
Due eccellenze nei rispettivi campi, due artisti che con il proprio corpo e con i corpi altrui hanno creato meraviglie. Maradona un campione dal fisico inadatto per il calcio dell’epoca, eppure proprio per quello sorprendente. Una figura quasi messianica, che manda messaggi politici (“con la mano ha vendicato il suo popolo!”) che salva vite e compie miracoli. Ma anche distante ed evanescente proprio come Fellini, che si vede in ombra. Si sente la sua voce e si vede il suo tocco sulla città di Napoli, ma resta anche lui una presenza mistica. È simbolico e inconoscibile quasi come quel piccolo monaco, simbolo di un’innocenza lasciata sulla strada per Roma.
Due ispirazioni (attenzione, non miti o idoli, ma proprio “muse”) che hanno un impatto concreto sui luoghi del loro passaggio. Persino sugli equilibri delle famiglie, danno una ragione per riappacificarsi, per andare avanti, per riunirsi tra vicini di casa. È una splendida lettura dell’intrattenimento (il cinema e il calcio sono simili in questo), come collante tra le persone.
Con queste due spinte: quella del tifo, che è passione e sudore, e quella del cinema, che è sguardo, Fabietto diventa Fabio. Cresce e trova la sua identità di uomo uscendo dalla pelle dell’adolescente inquieto e retorico. Abbandona il liceo classico, il teatro di maniera, per ritornare nella carnalità della notte. Fa così anche Sorrentino con il suo ultimo film. Che è sì il più personale, ma tutti lo sono per un autore, piuttosto è quello che ha meno paura di emozionare radicalmente. Inserisce così l’ironia, per tenerci al riparo da una vicenda privata. Trova la giusta distanza rispetto ai fatti personali per evitare la retorica sentimentale. E ci spiega quel discorso fatto in quella notte magica.
Fellini, Maradona, Servillo, Giuliano, sono le figure che popolano il mondo di Sorrentino in una maniera così permeante che vanno a costituire parte della sua personalità. Per questo È stata la mano di Dio è un inno all’interiorità. Prende i personaggi che sfiorandolo e urtandolo, hanno plasmato la sua forma fisica e mentale. In quella notte degli Oscar il regista raccontava un universo di “diversi”. I suoi sono un altro tipo di freaks, sono le persone che non rispettano canoni precostituiti, che vengono rinchiuse come pazze o che hanno un genio incontenibile. Sono tutti coloro che vedono oltre la noiosa realtà, e per questo sono gli unici veramente liberi. La storia girata dopo Napoli di È stata la mano di Dio è nota: si chiama La Grande Bellezza di Roma.
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