Dune: il film di Villeneuve è vittima dell’epoca dei franchise

Dune di Denis Villeneuve è un ottimo film, o almeno così sembra: peccato che proprio quando sta per cominciare sia costretto a fermarsi

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Si potrebbe discutere per ore del Dune di Denis Villeneuve, per provare a stabilire se sia il gran film descritto da una parte della critica oppure la mezza delusione raccontata dall’altra parte. Secondo noi ci sono ottimi motivi per sostenere entrambe le posizioni, e questa è una cosa bellissima: Dune era un progetto complicato e pericoloso, e il fatto che Villeneuve abbia deciso di affrontarlo con decisione e un’idea molto precisa di come approcciare il romanzo di Herbert ha dato vita a un film con una personalità, e quindi anche con dei difetti – tridimensionale e non piatto come molti blockbuster moderni, di fantascienza e non. C’è però un dettaglio sul quale crediamo sia impossibile non concordare, e cioè che Dune sarebbe potuto essere un film molto migliore se non fosse uscito in questi anni.

Con “in questi anni”, ovviamente, facciamo riferimento in particolare al modo in cui il 99,99% dell’intrattenimento mainstream ha abbandonato i confini della singola opera per diventare un franchise, un universo cinematografico condiviso, un metaverso, scegliete voi la definizione che preferite. Si tende sempre più spesso a privilegiare le storie che non si concludono in una singola opera ma possono venire spalmate su uno o più archi, magari divisi tra cinema, televisione, videogiochi e fumetti per non lasciare nulla di intentato. È facile puntare il dito contro il povero Kevin Feige e indicarlo come colpevole unico della c.d. marvelizzazione del contenuto; la verità è che i semi di questa situazione esistevano già da prima, erano già stati gettati più e più volte, da Matrix al Signore degli anelli, e Feige ha avuto la bravura e la fortuna di piantarli nel posto giusto, nel momento giusto e nel modo giusto.

Dune ovviamente non è (non ancora, almeno) un franchise della dimensione e tentacolarità dell’universo Marvel, ma in linea puramente teorica potrebbe diventarlo: i romanzi di Herbert sono sei (più un racconto), gli spin-off non scritti da lui ma più o meno canonici sono diciotto (più nove racconti) (speriamo di non aver sbagliato i conti ma è davvero tanto materiale), le possibilità narrative sono sterminate e l’universo dove si svolge la storia è stato descritto abbastanza nel dettaglio da dare la possibilità di ambientarci nuove storie con nuovi personaggi, e portare Dune lontano da Casa Atreides. Ancora una volta, non sappiamo se succederà, se con l’uscita del sequel Dune farà il salto definitivo e diventerà un franchise appetibile per quel grande verme delle sabbie che è l’intrattenimento contemporaneo.

Ma la possibilità c’è, è innegabile e le prime persone a rendersene conto sono quelle che hanno messo i soldi per la produzione del film. E quindi, con tutta la libertà artistica che è stata concessa a Villeneuve, Dune soffre necessariamente della sindrome del “potrebbe essercene ancora”. Lo si nota prima di tutto guardando ai due protagonisti, cioè Paul Atreides (Timothée Chalamet) e Chani (Zendaya). Il primo è il cuore di tutto il film: Villeneuve sceglie di tagliare molti dettagli di ambientazione che erano quelli che arricchivano il romanzo e di rendere Dune la storia di Paul Atreides molto più di quanto non lo fosse il libro. La narrazione segue passo per passo il suo arco di crescita, e la sua trasformazione da arrogante e viziato erede di un impero a potenziale profeta e salvatore della galassia.

Il problema è che, in ossequio ai ritmi della narrazione episodica, l’arco di Paul è incompleto. Dune copre solo la prima metà circa del romanzo di Herbert, e di conseguenza si interrompe proprio sul più bello. Parlavamo prima di Zendaya: Chani è una presenza costante nell’arco di tutto il film nonostante compaia in scena una manciata di minuti, e la maggior parte del suo screentime la veda protagonista delle visioni oniriche di Paul. Sono momenti, istanti, che per oltre due ore nutrono la nostra curiosità nei confronti di questa misteriosa abitatrice del deserto; e nel momento in cui finalmente la sua strada e quella di Paul si intrecciano, la storia si interrompe e partono i titoli di coda.

Quello che vale per Paul e Chani vale in realtà per tutto il resto del film, e volendo è una mossa coraggiosa: era forse dai tempi di La compagnia dell’anello (e in misura minore degli ultimi due capitoli di Harry Potter) che una saga di questo tipo non si prendeva il rischio di chiudersi con una valanga di cliffhanger e senza aver davvero chiuso nessuna parentesi (escluse quelle relative ai morti). Ci sono una serie di figure che fanno capolino nel corso del film e fanno capire di avere un peso importante nell’equilibrio dell’universo, delle quali però a fine film sappiamo poco di più di quanto sapessimo all’inizio: è un modo per convincere chi guarda a restare sintonizzato e aspettare impazientemente il prossimo capitolo, ma è anche una scelta che toglie valore al film in quanto tale.

Potreste obiettare “proprio perché siamo abituati alle narrazioni orizzontali stirate all’inverosimile, non dovrebbe essere un problema accettare che Dune finisce a metà”, e anche “se l’alternativa era tagliare ancora per arrivare a un solo film di tre ore e mezza, non è meglio così?”. È tutto vero, ovviamente, e la vera valutazione su Dune si farà solo quando sarà uscito anche il secondo capitolo: lì partiranno le maratone e le analisi utili a dimostrare perché Dune è un capolavoro in due atti (o al contrario perché il secondo atto rovina tutto, non lo sappiamo ancora, è possibile). Resta però il fatto che il film di Villeneuve lascia l’amaro in bocca, perché è come guardare una lunga rincorsa che si interrompe proprio sul più bello, al momento del salto.

La struttura bicefala di Dune, quindi, ci impedisce di dare un giudizio definitivo sul film; non chiedeteci di valutarlo o di dargli un voto da 1 a 10, perché è un’opera che produttivamente ha senso ma che narrativamente è monca. La sua fortuna principale è che quello che c’è è generalmente eccellente, e fa ben sperare per il futuro. In particolare, la scelta di Villeneuve di abbandonare gli eccessi della versione lynchana per immaginarsi un Dune austero e funzionale, gelido e solenne, è vincente: è un film serio che parla di cose serie, di gente che deve sopravvivere in postacci inabitabili e bollenti e infestati da vermi lunghi centinaia di metri, e quindi tutto quanto, dall’architettura ai rapporti umani, è ridotto all’osso. È un film di grandi temi nel quale si parla relativamente poco, dove la narrazione è portata avanti quasi sempre dalla pura azione, dalle cose che succedono più che dalle cose che dicono.

In altre parole, Dune è un film di Villeneuve al 100%, più Arrival che Star Wars, e in quanto tale può essere respingente, ma dovrebbe essere ammirato: si può accusarlo di tante cose, ma non di fare di tutto per piacere a tutti – anzi. Peccato solo che ogni valutazione, compresa quest’ultima (per quanto ne sappiamo, Dune 2 potrebbe sostituire l’austerità con le battutine taglienti), sia ancora parziale e passibile di revisione: non abbiamo un’opinione definitiva su Dune, perché è uscito in un periodo storico nel quale ci è impossibile averla.

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