Donkey Kong, la vita fortunata, e un po' malinconica, di un gorilla nato per errore

A pochi giorni dalla pubblicazione di Donkey Kong Country: Tropical Freeze, vale la pena riscoprire origini e storia di una delle mascotte più famose di Nintendo

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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È difficile spiegare a parole, e descrivere attraverso similitudini, l’effetto, le sensazioni che suscita il riascoltare le soundtrack degli originali Donkey Kong Contry, terzetto di capolavori che impreziosirono la softeca del Super Nintendo tra il 1994 e il 1996. La manciata di tracce MIDI, che accompagnano le tre epopee magistralmente realizzate da un ispiratissimo David Wise, racconta e parla di un’epoca che non esiste più, che ha lasciato ricordi vividi ed indelebili in una generazione di videogiocatori che, giocoforza, non ha più potuto fare a meno di un certo standard qualitativo, di pretendere specifiche caratteristiche, soprattutto quando si parla di platform.

C’è un’emozione, tuttavia, che sovrasta tutte le altre quando ci si ritrova tra le mani il pad di un vecchio Super Nintendo, o di un Nintendo Classic Mini: SNES in alternativa, intenti a vestire i panni dello scimmione più famoso del mondo dopo King Kong: la nostalgia.

Non si tratta di una suggestione tutta nuova, determinata e sancita da una contemporaneità che fa di tutto per farci sentire vecchi e riproporci, opportunamente remixati e riadattati, gli anni migliori della nostra vita sottoforma di film, serie TV e videogiochi, per l’appunto, che ricalcano stilemi e canoni degli Anni 80 o giù di lì.

[caption id="attachment_184547" align="aligncenter" width="1000"]Donkey Kong screenshot Esiste qualcosa di più romantico di un rapimento al fine di instaurare una relazione inter-specie coatta e in buona parte violenta? Forse sì.[/caption]

Più in generale, la malinconia, una certa malinconia dolciastra di fondo, sembra essere la costante che più di altre contraddistingue l’intera carriera di Donkey Kong, il punto di raccordo che unisce e armonizza  i due ruoli giocati dalla mascotte nella sua lunga storia, ora eroe impavido, ora villain da abbattere a tutti i costi.

Donkey Kong, del resto, non doveva nemmeno esistere. A dirla tutta, non avrebbe dovuto nemmeno avere quel nome, frutto di un errore, di una leggerezza in fase di traduzione, passata al vaglio solo per l’indiscutibile ed evidente musicalità che crea. Ci doveva essere Braccio di Ferro e il suo cast di supporto, invece di Mario, Daisy e lo scimmione per l’appunto; donkey non significa di sicuro “testardo”, al contrario di quanto fosse fermamente convinto Shigeru Miyamoto.

L’esordio della famosa mascotte della Grande N, avvenuto come sappiamo nel lontano 1981 in sala giochi, è il frutto di un compromesso e di una svista. Non bastasse l’amore non corrisposto per la bellissima principessa rapita a donare un retrogusto amarognolo alla prima avventura del nostro, ci si aggiunge anche la certezza di essere un figlio non voluto e non desiderato, per quanto dotato, iconico sin da subito, destinato al successo, come sappiamo.

Donkey Kong Contry, come già anticipato, reinterpreta ed esaspera questa inquietudine di fondo. Non è solo la soundtrack. C’è anche la grafica pre-renderizzata che tratteggia mondi digitali sospesi, spesso martoriati dai fenomeni naturali. Soprattutto, nascosta sotto l’invasione piratesca di King K. Roll, c’è la minaccia del ferro, della ferocia prevaricatrice dell’industrializzazione a tutti i costi. I barili esplosivi, le rotaie che scavano nel cuore dell’isola del gorilla, ma anche alcuni nemici, che sembrano prodotti bio-meccanici di inquietanti catene di montaggio degne di un film di David Cronenberg, testimoniano, più di altro, la reale minaccia al quieto vivere della famiglia Kong.

" Donkey Kong è oggi una delle icone più conosciute e amate dell’industria videoludica. Come se non bastasse, la sua tenue tendenza alla malinconia, lo rende un personaggio ancor più affascinante"In questo senso, i tre episodi, tutte le suggestioni nostalgiche suscitate dall’art design, vanno interpretate come un malinconico tour, un lento viaggio d’addio tra meandri e recessi di una location da sogno, destinata, di lì a poco, ad essere spazzata via, depredata delle sue ricchezze, deturpata da un progresso che non si ferma di fronte a nulla. Volendo spingere ulteriormente il pedale della libera interpretazione, ben oltre le reali intenzioni degli sviluppatori, questo è poco ma sicuro, persino aver preferito l’avveniristico finto 3D, alla classica e rassicurante bidimensionalità, anticipa l’incessante evoluzione tecnologica, sfociata proprio in console nate e progettate per gestire ambienti virtuali tridimensionali, che avrebbero distrutto, o quanto meno messo in pericolo e ridiscusso il genere dei platform, almeno così come erano stati concepiti fino a quel momento.

Con la riesumazione della saga per mano di Retro Studios, guarda caso in 2D, guarda caso su una piattaforma, Wii, volutamente arretrata sotto il profilo tecnico, si ha una ripresa praticamente identica del sottotesto già espresso nella trilogia per Super Nintendo, la minaccia del “buon selvaggio” e della natura da parte dell’artificiale, eclissato con ancor più vigore da un art design quanto mai splendente, vivace, vibrante.

Toccherà a Donkey Kong Country: Tropical Freeze, originariamente pubblicato su Wii U nel 2014, riproposto in questi giorni su Nintendo Switch, rinvigorire il sub-strato malinconico proprio della saga. Questa volta non è (solo) l’industrializzazione, quanto il cambiamento climatico a minacciare l’isola tropicale di Donkey Kong. I nuovi nemici, difatti, vengono dal profondo nord e le loro armi principali sono ghiaccio e neve, elementi climatici (volutamente?) in contrasto con l’effetto serra che sta lentamente desertificando il pianeta e sciogliendo l’Artico, ma che minacciano in egual misura l’habitat naturale del protagonista.

[caption id="attachment_184546" align="aligncenter" width="1000"]Donkey Kong Jungle Beat screenshot Jungle Beat. Pochi lo giocarono, ancora meno furono quelli che lo capirono.[/caption]

Dopo gli esordi in salsa arcade, tra e nel corso dei vari episodi della saga Donkey Kong Country, il nostro amabile Donkey Kong non ha comunque lesinato sulle partecipazioni extracurriculari tipiche di ogni mascotte di Nintendo degna di questo nome: da Mario Kart, sino a Super Smash Bros., passando per Mario Party e Diddy Kong Racing, il nostro ha sempre dato prova di essere un animale estremamente socievole.

Non sono poi mancati episodi isolati o altre saghe degne di memoria. Donkey Kong 64, che tra le altre cose introdusse per primo l’Expansion Pak per Nintendo 64, e Mario vs Donkey Kong, in questo senso, parlano da soli. Vale tuttavia la pena citare, più di tutti, Donkey Kong Jungle Beat, ennesimo capolavoro estremamente sottovalutato della softeca del Game Cube, unicum nel suo genere per come seppe fondere perfettamente le meccaniche di un qualsiasi platform, con un raffinatissimo, e ben nascosto, ecosistema proprio di un rhytm game.

Nato per errore, Donkey Kong è oggi una delle icone più conosciute e amate dell’industria videoludica. Come se non bastasse, la sua tenue tendenza alla malinconia, lo rende un personaggio ancor più affascinante agli occhi di un’inguaribile nostalgico, come lo è il sottoscritto e buona parte della generazione che rappresenta.

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