La faccia di Donald Sutherland

Buono nei film dell'orrore e nelle commedie, cattivo in tutti gli altri generi, Donald Sutherland lavorava sempre controcorrente

Critico e giornalista cinematografico


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Buono nei film dell'orrore e nelle commedie, cattivo in tutti gli altri generi, Donald Sutherland lavorava sempre controcorrente rispetto al resto del film. È morto il 20 giugno a 88 anni.

Ci sono facce che l’horror lo chiamano. Quella di Donald Sutherland era certamente una di quelle facce. In un’altra epoca del cinema, in cui i film, specie quelli dell’orrore, si producevano a catena di montaggio, in fretta e con pratiche standardizzate, uno dopo l’altro in fila, Donald Sutherland lavorava anche quando non era nessuno. Per poco meno di dieci anni si è battuto tra produzioni televisive e cinematografiche in America e molto in Europa (Regno Unito e Italia principalmente), comparendo in diversi film di genere, soprattutto horror. Lì ha affinato quel tipo di recitazione grossolana che era richiesta all’epoca per il genere e non se n’è mai dimenticato anche quando è passato ad altro.

Gli anni ‘60 erano quelli in cui un attore poi destinato a cose grandi, grandi film e produzioni di serie A, poteva imparare il mestiere nel mondo del cinema di serie B, cercando il salto a un certo punto (quello che non riesce al personaggio di DiCaprio in C’era una volta a Hollywood). È stata una produzione apparentemente semplice (ma intimamente sovversiva) ad aiutarlo, M.A.S.H. di Altman, ma negli stessi anni Sutherland, con quel ghigno e quello sguardo matto, era anche in Quella sporca dozzina. E quando la tua carriera per poco meno di dieci anni si forma in quel mondo, recitando con quel tipo di atteggiamento ed espressività richiesti, ti rimane addosso. E anche quando era in là con gli anni il cinema di genere (a cui gli anziani servono sempre) non si è mai dimenticato di lui. Come gli è rimasta addosso la passione per il lavoro in Italia, che si è portato dietro fino alla fine, fino a Ella & John di Virzì.

Sutherland era quindi un attore di genere, formato nel genere e destinato al genere (200 in totale i film in cui ha recitato), che si è guadagnato una carriera anche in un cinema completamente diverso, ma che non ha mai perso quell’impostazione. Poteva stare nel Casanova di Fellini, forse la lavorazione più infernale della sua vita, per la quale aveva solo parole incendiarie di odio e litigio, o in Orgoglio e pregiudizio, ma la maniera in cui interpretava i suoi personaggi si portava dietro quel mondo da cui veniva. Non era mai sottile, anche quando gli veniva richiesto. L’impressione è che i suoi modelli non fossero Jean Gabin o Spencer Tracy, Marlon Brando o Paul Newman, ma più Christopher Lee (con cui ovviamente ha lavorato, perché quanto puoi prendere parte agli horror europei senza incontrarlo?). Anche da fermo aveva un’intensità luciferina che trasferiva al cinema d’autore.

L’apice di questi due mondi probabilmente l’ha toccato in Don’t Look Now (da noi A Venezia… un dicembre rosso shocking), produzione italo-britannica ambientata a Venezia, in cui Nicolas Roeg per la prima volta faceva quello che oggi sembra scontato: creare un nuovo immaginario per Venezia, tarato sull’orrore, le presenze spiritiche, i fantasmi, le visioni e il cielo plumbeo. Quello di Don’t Look Now è, senza mezzi termini, cinema da pionieri, quello che cerca di fare cose inedite e cambiare la percezione generale di certi luoghi e atmosfere. Oggi lo chiamiamo elevated horror, in realtà è cinema d'autore fatto attraverso il genere. Per un film così serve un lavoro diverso e nuovo da tutti, e Sutherland è l’interprete perfetto per guidare il cast e dare l'impostazione giusta.

Del resto solo Sutherland poteva fare il remake di L’invasione degli ultracorpi di Philip Kaufman (da noi Terrore dallo spazio profondo) negli stessi anni e quasi con lo stesso look con cui faceva il professore godereccio di Animal House. Buono nei film dell’orrore, cattivo in tutti gli altri, perfettamente a metà strada, sempre contro la corrente del film, sempre a subire. L’unico attore che può essere in Novecento di Bertolucci e poi in Sorvegliato speciale, magnifico direttore del carcere spietato in un film grossolano che deve fare bene il lavoro massimalista.

Uno dei pochi, forse degli ultimi, grandissimi attori del cinema mondiale che avesse capito profondamente il senso del cinema di genere, che lo sapesse fare a tutti i livelli e che, a seconda delle età, ha passato tutti i ruoli finendo per fare il presidente Coriolanus di Hunger Games, scelta perfetta su cui lui lavora con una precisione e un’efficacia (la dote principale degli attori di genere) rara. Per un confronto e per capire cosa si intenda, si pensi a Christopher Walken (un altro attore gigantesco ma di provenienza più nobile) in un ruolo in fondo non diversissimo come quello dell’imperatore Shaddam IV di Dune: parte due. Se lì ci fosse stato Sutherland, avremmo avuto senza dubbio un imperatore con una statura e un’imponenza diverse, più vicine alle tinte forti del cinema di genere, un idolo gigante che deve essere tale perché il suo ruolo nel film è dare soddisfazione quando viene abbattuto. Questo significa capire il genere.

Che attore.

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