Disturbia è un mix di generi (quasi) perfetto
Disturbia riesce a coniugare il thriller paranoico con la teen comedy e a raggiungere un equilibrio quasi impeccabile
Disturbia è su Netflix
Disturbia, Hitchcock e Martha Stewart
È impossibile non pensare a Hitchcock guardando Disturbia: la storia è quella di una persona costretta a rimanere chiusa in casa e che, per riempire il vuoto delle sue giornate, comincia a osservare (… spiare) quello che fanno i suoi vicini. Un guardone, insomma, un protagonista almeno parzialmente negativo che si comporta in modo inaccettabile ma che, proprio grazie a questa sua trasgressione, scopre che nel suo vicinato c’è anche chi fa di peggio – molto di peggio. Il personaggio in questione è interpretato da uno Shia LaBeouf che al tempo non era ancora una star riconosciuta, e il motivo per cui è chiuso in casa c’entra con una delle personalità televisive più famose d’America, cioè Martha Stewart.
Lo spiegò a suo tempo Christopher Landon in varie interviste tipo questa: Stewart al tempo era agli arresti domiciliari, e quello che poi con gli anni è diventato anche un regista di successo (in particolare grazie ad Auguri per la tua morte) cominciò a chiedersi “come mi comporterei io se fossi in questa situazione?”. È forse un po’ inquietante che la risposta che si diede fu “passerei tutto il tempo a spiare i miei vicini”, ma è anche un bene, perché è la base di quello che è un thriller tutto sommato semplice, ma tremendamente efficace. La suburbia americana è da sempre un luogo apparentemente perfetto ma che nasconde segreti inconfessabili, come ci hanno insegnato tra gli altri Stephen King e David Lynch, e osservare non visti quello che succede in un quartiere fatto di villette con pratini ben curati e staccionate dipinte di bianco è un ottimo modo per far venire a galla questi segreti.
Il segreto sta nell’età
La grande intuizione vincente di Disturbia è quella di mettere dietro al binocolo, nel ruolo del guardone, un adolescente un po’ ribelle. Ribelle per ottimi motivi, forse: Kale ha subito il trauma della morte del padre in un incidente stradale, morte della quale si attribuisce inconsciamente la colpa, e da allora tende a comportarsi come un giovane problematico; il motivo dei suoi arresti domiciliari, per dire, è che ha dato un pugno in faccia al suo insegnante di spagnolo. Questo presupposto fa sì che Disturbia abbia la sua bella dose di momenti creepy, tra cui spicca il fatto che Kale passi gran parte del suo tempo a spiare la bella vicina spesso in bikini, ma lascia anche spazio per uno sviluppo del personaggio che non è tipico dei thriller, ma delle storielle adolescenziali.
Mentre tiene d’occhio i movimenti di Robert Turner, il più inquietante dei suoi vicini, Kale ha infatti anche tempo per vivere momenti più classicamente adolescenziali: ha un amico con il quale si diverte a giocare ai videogiochi e che viene coinvolto nello spionaggio, e soprattutto coltiva e fa anche fruttare la sua cotta per la succitata vicina. Disturbia alterna così momenti più leggeri, fatti di flirt e scemate da sedicenni, a scene più hitchockiane; D.J. Caruso si diverte a depistare, a mostrare dettagli ambigui e che alimentano i sospetti di Kale ma anche dello spettatore, e a intervallare questi momenti con scene che potrebbero essere uscite da una qualsiasi commedia adolescenziale anni Novanta. È un mix coraggioso che funziona anche più di quanto dovrebbe.
Perché “quasi” perfetto?
Non tutto in Disturbia fila come dovrebbe. Il problema più grosso è, paradossalmente visto quanto scritto finora, di equilibrio nella scrittura: il film tiene il punto per i primi due atti, ma quando arriva il momento di quagliare e trasformare lo spionaggio in azione mette da parte per forza di cosa la questione adolescenziale per concentrarsi esclusivamente sul suo essere un thriller. È qui che Caruso dimostra i suoi limiti, che verranno poi confermati dalle sue opere successive (una su tutte, Sono il numero quattro): tanto è bravo a raccontare una storia di adolescenti arrapati, quanto è mediocre a mettere in scena l’azione.
Il terzo atto, quindi, nel quale il serial killer si rivela per quello che è, è una sequela di scene troppo buie e troppo confuse, che non riescono del tutto a spaventare e generare tensione; e certe scelte narrative e certe svolte di trama sono prese di peso dal manuale del thriller scolastico. Quella che ne subisce di più gli effetti è la povera Sarah Roemer, fin lì personaggio scritto alla perfezione e interpretato con altrettanta grazia ma che sul finale prima sparisce, poi diventa una sorta di deus ex machina che sembra calato a forza dall’alto per risolvere un paio di passaggi spinosi. Non è abbastanza per rovinare il film, comunque, che rimane un piccolo ma gustosissimo thriller che si merita la ritrovata fama che gli sta regalando l’arrivo su Netflix. Approfittatene per recuperarlo.
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