Disclaimer è l’ennesima opera che dimostra che il confine tra TV e cinema non esiste più

Cuarón vorrebbe presentare Disclaimer come film per concorrere agli Oscar e ha ragione: la differenza tra miniserie e film lungo è ormai impalpabile

Condividi

Nell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia due serie TV sono entrate di diritto nelle visioni più spettacolari proposte al Lido per mezzi, budget, messa in scena e idee. Nessuno si è stupito di questa cosa. Una è M - Il figlio del secolo. L’altra è Disclaimer. Alfonso Cuarón non la definisce una serie da sette ore, ma un film, e potrebbe avere molta ragione. Prodotta da Apple TV+ l’opera è una di quelle esperienze che, seduti di fronte all’enorme schermo di un festival cinematografico, fanno pensare al privilegio di poterle fruire in questo modo. Disclaimer è veramente un’espressione coerente con la filmografia del regista, un’epopea che estende i suoi temi e porta al massimo la cura nella messa in scena. Un film di Cuarón in 7 parti che quasi nessuno vedrà al cinema. 

C’è tanto del suo cinema. C’è il mare che assorbe e uccide, proprio come nella magistrale sequenza di Roma, c’è il sesso e la seduzione, tema caro alla sua prima parte della carriera, e c’è pure Harry Potter citato come un libro che è meglio non menzionare quando si vuole creare una falsa identità di un millennial su Instagram. Tratto dal romanzo di Renée Knight, il progetto Disclaimer è una decostruzione di un personaggio, quello di Catherine Ravenscroft, giornalista investigativa di successo, ma anche una riflessione su come la finzione, le ispirazioni letterarie e le storie che ci circondano interagiscano con l'esistenza reale. La donna riceve infatti da un mittente senza identità un romanzo che racconta le azioni di una misteriosa donna orribile che ha sedotto un giovane ragazzo, ora morto per un annegamento sospetto. Catherine legge quelle pagine e impazzisce: il romanzo parla di lei.

Tra serie TV e Cinema il confine è ormai sfumato

Baz Bamigboye, giornalista di Deadline, si è convinto che se Disclaimer venisse sottoposto all’Academy come film avrebbe concrete possibilità di vincere il premio Oscar più importante. Così ha raggiunto Alfonso Cuarón per sottoporgli la sua tesi dicendo come questo dramma di sette ore dovesse essere in qualche modo rimontato e adattato per venire sottoposto alla commissione dell’Academy. Cuarón l’ha corretto spiegando che, per lui, Disclaimer è già un film di sette ore e che ha pensato molto a come poterlo rendere ammissibile agli Oscar, ma non ha ancora trovato una risposta. Ha infine chiesto di non riportare questa sua affermazione cosa che, ovviamente, non è accaduta. 

È un giusto dibattito quello che si è originato da questa risposta: in un periodo della cultura audiovisiva in cui la durata non è più un problema, ma è anzi uno strumento per provare nuove forme narrative, come tracciare la distinzione tra miniserie (quindi limitate a una stagione sola) e lunghi film ospitati dalle piattaforme?

La distribuzione in sala è uno dei criteri per essere preso in considerazione dagli Oscar ma, nel caso di film così lunghi, si presentano evidenti problemi per la distribuzione. La televisione e più in generale la fruizione domestica, diventano l’unico luogo in cui la stragrande maggioranza delle persone può permettersi di fruire un contenuto di questo tipo. La suddivisione in capitoli o episodi è però solo una convenzione per suggerire i momenti di stop alla visione, in corrispondenza con le svolte narrative. Non è solo Cuarón (anche se lui è tra i primi ad avere affrontato così esplicitamente il tema), sono molti gli autori che si sono dedicati a serie TV che rivestono nella loro filmografia un ruolo importante quanto i film. 

Tra film lunghi e serie TV non è più questione di qualità

C’è la serialità da una parte, con una struttura a stagioni la cui sopravvivenza è legata spesso ai rating d’ascolto. C’è l’uso delle piattaforme seriali per raccontare film lunghi, come in questo caso. Già nel 2019 i Cahiers du cinéma affidavano alla terza stagione di Twin Peaks il primo posto nella classifica dei migliori film dell’anno. L’opera di Lynch sfrutta il linguaggio della serialità, ma sembra un film nel suo essere isolato, fruibile da sé e limitato. 

Come lui sono molti gli autori che si sono occupati, da soli, della regia di un’opera ad episodi. Si possono citare ad esempio Pablo Larraín, Cary Joji Fukunaga, Todd Haynes, Woody Allen, Jean-Marc Vallée, Nicholas Winding Refn, Luca Guadagnino e, appunto, Joe Wright con M - Il figlio del secolo. Prendendo in mano la totalità della direzione degli episodi l’hanno personalizzata e hanno dato una coerenza lontana dalle produzioni “collettive” delle serie TV (in cui si alternano più registi e sceneggiatori). Questo potrebbe essere il principale discrimine tra le due forme. 

Il fatto che esista questo dibattito, che ci siano racconti così potenti come Disclaimer che permettono di riflettere sulle linee di confine tra le forme narrative, è il segno che ormai il lessico va aggiornato. La serialità, usata come peggiorativo, il film, usato come termine di piena dignità artistica, sono ormai categorie del passato. È proprio questo incontro, quello tra la coerenza del film e il respiro narrativo delle serie TV ad aprire uno spazio di nuove possibilità, laddove la forma del racconto sembra incancrenita nel continuo ripetersi di sequel, IP sfruttate all’inverosimile e ricalchi. I festival cinematografici l'hanno già capito. Dare più tempo agli autori è come aprire una porta verso nuove sperimentazioni del racconto.

Fonte / Deadline
Continua a leggere su BadTaste