Dimenticate fantascienza e robot, Westworld in realtà è la prima vera serie sui videogiochi

Mappe, missioni, intelligenze artificiali, musiche, scenari, side quest e anche un DLC, Westworld è la grande metafora della passione per i videogiochi

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Durante la seconda puntata di Westworld c’è quello che gli ex-alcolisti chiamano “il momento della consapevolezza”, un attimo in cui di colpo tutto è chiaro, ogni cosa ha un senso e la realtà ci si presenta davanti per come davvero è, come se ogni pezzo di un puzzle intricato si incastrasse a perfezione e ogni dettaglio avesse un senso chiaro e incontrovertibile. Per gli alcolisti quel momento corrisponde alla presa di coscienza della situazione che vivono e la conseguente decisione di smettere di bere; per chi conosce i videogiochi quel momento, durante la seconda puntata di Westworld, corrisponde all’attimo in cui si realizza di essere davanti ad una serie che non parla di un futuro lontano in cui esiste un parco in cui robot umanoidi fingono di essere pistoleri, contadini, pionieri o prostitute e i clienti possono vivere avventure in stile western, ma parla dei videogiochi di oggi, di quelli che giochiamo.

Dal momento in cui questa consapevolezza ci colpisce ogni cosa è immediatamente chiara.

Jonathan Nolan e Lisa Joy Nolan del resto non l’hanno mai nascosto, questa serie tratta dal film Il Mondo Dei Robot non è impermeabile all’evidenza che oggi un simile concept si avvicini a quel che fanno i videogiochi. Del resto già la scelta di inserire musica pop e rock, riarrangiata per non stonare in un saloon o per fare da colonna sonora è un’aperta citazione delle canzoni moderne rielaborate in Bioshock Infinite.

Nessuno aveva però pensato che sarebbero andati così a fondo nella similitudine, fino a costruire una cattedrale che indaga, celebra e si interroga sul senso della videoludica moderna, senza mai citarla. Un secondo livello di lettura di tutta la serie, evidente solo a chi ha mai giocato ad un videogame open world.
Westworld (il mondo simulato, non la serie tv) è esso stesso un videogioco open world, Red Dead Redemption è il suo parente più prossimo per l’ambientazione western, ma le caratteristiche che mostra sono prese in giro da tanti titoli differenti per costituire la summa del genere. E del genere ha problemi, caratteristiche, ironie e tratti peculiari ma soprattutto ne ha le possibilità.

[caption id="attachment_161659" align="aligncenter" width="600"]La mappa di Westworld, con una visuale 3D degna delle migliori mappe da avventura grafica La mappa di Westworld, con una visuale 3D degna delle migliori mappe da avventura grafica[/caption]

Come negli open world c’è un giocatore, cioè una persona reale, che interagisce con un mondo costituito da intelligenze artificiali, progettate per simulare una loro “vita”, cioè avere da fare e non necessariamente badare al giocatore. Tutto si svolge all’interno di una grandissima mappa, una così vasta che come spesso capita anche in GTA o Skyrim, si ha la sensazione che non la si può esplorare tutta, che esisteranno sempre luoghi o anfratti nuovi. In Westworld si incontra anche qualche altro umano, ma del resto questo accade anche in videogame come Destiny, e il bello è che in Destiny come in Westworld i veri umani si distinguono immediatamente dal comportamento. Che però questa serie non sia solo una replica a specchio dei videogiochi ma un modo per cercare di andare a fondo sul loro effetto su di noi (siamo attratti dai loro mondi di finzione come i clienti di Westworld sono attratti dall’esperienza) comincia ad essere evidente quando il pistolero interpretato da Ed Harris afferma che ciò che ama di quel luogo è come, a differenza del mondo vero, non ci sia caos ma ogni cosa abbia uno scopo, ogni azione delle intelligenze artificiali sia finalizzata a qualcosa. Esattamente la sensazione di vivere in un open world, mondi vasti dominati dalla certezza che ogni dettaglio e ogni storia siano lì per un motivo.

Senza bisogno di fare spoiler ci sono personaggi che tornano periodicamente a Westworld, da anni, che in buona sostanza ci giocano e rigiocano da capo perché non è un’esperienza ripetitiva e, anzi, come dicono apertamente, ogni volta scoprono linee di trama, di storia (o di gioco) nuove.
Come se le similitudini poi non fossero abbastanza ad un certo punto viene introdotta quella che la serie chiama “una nuova trama”, cioè una nuova storia che si inserisce in Westworld, con nuovi personaggi che possono coinvolgere i giocatori in uno spettacolo più ordinato del solo free roaming. Praticamente un DLC che ha anche un nome da DLC: “Odyssey on the river”.

Perché in Westworld, come negli open world, ogni giocatore/cliente può sia girare liberamente e godere del mondo ricreato, oppure farsi prendere da una storia, inserirsi in un intreccio che può essere sia uno di quelli principali (le grandi scene di massa), sia una delle molte storielle, cioè dei side quest, proposti, come quello in cui sta per essere preso Jimmi Simpson, quando un vecchietto vuole convincerlo a seguirlo alla ricerca di un tesoro.

[caption id="attachment_161660" align="aligncenter" width="600"]Scenari vasti Scenari vasti[/caption]

Questa idea di poter provare avventure diverse, essere personaggi diversi (c’è chi ogni volta che va in Westworld sceglie un carattere diverso da incarnare) ed avere la libertà di fare quel che nella vita non si farebbe mai, cioè sparare, ammazzare, vivere avventure rischiose e via dicendo, è quel tipo di finzione che è sempre stata sfogata nei giochi e nei videogiochi, da guardie e ladri fino a GTA. Allora quando il grande creatore di tutto, Anthony Hopkins, sostiene che “La gente torna a Westworld per le piccole sottigliezze, per le cose che credono di essere gli unici ad aver notato. Non per scoprire chi sono, quello lo sanno, ma per avere un lampo di quello che potrebbero essere”, è spontaneo chiedersi fino a che punto la sceneggiatura faccia riferimento al parco di robot e quanto invece non stia parlando dello scopo ultimo della videoludica.

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