Dieci anni dopo, Insidious è ancora un manuale di jump scare
Insidious di James Wan compie dieci anni: la saga nel frattempo è esplosa, ma il primo capitolo rimane ancora un perfetto manuale horror
Il jump scare, quel momento di terrore che arriva all’improvviso nel mezzo di una scena di tensione silente o ancora peggio di una scena fino a quel momento perfettamente tranquilla, è uno degli ingredienti fondamentali dell’horror fin dalle origini e un’arte nobile e che richiede buon gusto e tempismo per esprimersi al meglio. Purtroppo negli ultimi anni (venti, forse addirittura trenta) il caro, vecchio jump scare è andato incontro a un declino inesorabile, al punto che oggi molti film di genere ricevono lodi e complimenti se semplicemente evitano di usarli – quelle frasi classiche da recensione horror degli ultimi anni tipo “il film XYZ genera terrore senza doversi appoggiare ai banali jump scare”. Insidious, che oggi compie dieci anni dalla sua uscita italiana, è ancora oggi la dimostrazione che si può far saltare il pubblico sulla poltrona del cinema in modo efficace, se si conoscono gli strumenti del mestiere.
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Wan e Whannell quindi decisero di fare Insidious, e di farlo insieme a Haunted Movies, la sottodivisione di Blumhouse creata per l’occasione e che servirà poi a Jason Blum per entrare nel radar (e nei finanziamenti) di Universal. Secondo Wan, il poter girare “senza un comitato a controllare tutto mi ha permesso di infilare nel film un sacco di momenti inquietanti che uno studio grosso non avrebbe capito”. È la classica parabola della produzione indipendente che è dunque anche libera da lacci e lacciuoli e può esprimersi al meglio delle sue potenzialità; e considerando i quasi 100 milioni di incassi a fronte di un budget di 1,5 è anche una favola a lieto fine.
Il secondo modo è di prendere un nucleo familiare già traumatizzato in qualche modo, con problemi più o meno sotterranei e le prime crepe visibili su una facciata altrimenti perfetta, e usare la scusa della casa infestata per scavare un solco sempre più profondo tra i personaggi. La famiglia Lambert (Patrick Wilson, Rose Byrne e i loro tre figli) non è ancora una famiglia in pezzi; ma è una famiglia nella quale il padre passa gran parte del tempo al lavoro e quando torna a casa fa la figura dell’eroe con i figli, mentre la madre ha dovuto smettere di lavorare per star dietro ai suddetti figli ed è quindi ben avviata sulla strada che la porterà all’esaurimento nervoso.
Ed è proprio grazie a una serie di nevrosi grandi e piccine, e anche familiari in tutti i sensi, che Insidious costruisce la sua macchina per il terrore. In un certo senso il film è un modo per il cinema horror tradizionale di reimpossessarsi di qualcosa che in quegli anni era diventato appannaggio del found footage e dintorni (Paranormal Activity in primis): il terrore domestico, la paura degli angoli bui di casa, la claustrofobia dell’ambientazione singola, il modo in cui semplici luci e ombre trasformano anche un luogo familiare in una galleria degli orrori. Le voci che arrivano dal baby monitor; i rumori dal piano di sopra, dove la neonata dorme ignara degli spiriti malvagi che la circondano; apparizioni fugaci nelle cornici di porte che danno su camere buie; porte, ancora loro, che si aprono e si chiudono senza spiegazione; un allarme che scatta senza motivo, fastidioso come un trapano nel cervello.
Tutte cose che riflettono in parte l’esperienza del cambiare casa, e del doversi riabituare a vivere in un luogo non familiare; e anche l’esperienza di dover dire addio alla propria vita e alle proprie ambizioni per seguire delle creaturine che urlano e cagano tutto il giorno. È in questo quadretto, rassicurante ma tutt’altro che privo di difetti, che Wan e Whannell si infilano con astuzia. All’inizio lo fanno con calma, con un’inquadratura obliqua qui e una figura spettrale che passa fuori dalla finestra là. E soprattutto lo fanno nel modo giusto, cioè disorientando. Ci sono horror nei quali la musica di tensione in crescendo sfocia inevitabilmente in un jump scare, non importa se è il ventesimo del film; ci sono horror che al contrario usano questo trucco per disseminare tutto il primo atto di finti jump scare, nella speranza di cogliere il pubblico impreparato quando arriverà quello vero (e con il rischio di diventare il Pierino che grida al lupo del cinema di genere).
Insidious mischia i due approcci, e in questo modo costringe fino alla fine a tenere alta l’attenzione, perché quel silenzio improvviso potrebbe sfociare in un’esplosione di terrore oppure potrebbe spegnersi senza fare danni; non scegliendo mai una sola delle due strade come esclusiva, Wan e Whannell riescono a tenere costantemente alto il volume della paura. Non significa che il viaggio non sia privo di ostacoli, che fanno capolino soprattutto nella seconda metà del film, da quando viene introdotta la figura di Zelda Rubinstein Regen (Lin Shaye), la chiaroveggente/esperta di paranormale chiamata come ultima risorsa contro il misterioso spirito infestatore.
L’ingresso in scena suo e della sua squadra di investigatori paranormali (che comprendono lo stesso Leigh Whannell) sposta Insidious su territori più concreti e persino mitopoietici, e porta con sé anche delle note di comicità che alleggeriscono l’atmosfera – una scelta voluta, certamente, ma non siamo sicuri che sia la scelta giusta. Con il passare dei minuti e l’avvicinarsi del confronto finale Insidious perde un po’ della sua carica e della sua perfezione nel costruire la tensione per abbandonarsi a uno spettacolo più d’impatto, ma meno sottilmente inquietante. D’altra parte è lo stesso spettacolo che con gli anni farà diventare Insidious un franchise da quattro (presto cinque) film, per cui non c’è alcun dubbio: anche su questo hanno avuto ragione Wan e Whannell.