Die Hard – Vivere o morire era sorprendentemente avanti

Nonostante tutti i suoi difetti, Die Hard – Vivere o morire racconta una storia che oggi è ancora più interessante di allora

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Die Hard – Vivere o morire va in onda questa sera alle 21:04 su 20 Mediaset

Die Hard – Vivere o morire potrebbe essere il film del franchise con (o su?) Bruce Willis che più di tutti ha diviso il fandom. Ultimo colpo di coda prima della caduta nella mediocrità o primo segnale che le cose sarebbero andate peggiorando dopo una delle trilogie migliori degli anni Ottanta e Novanta? Bruce Willis è migliorato con l’età acquistando in carisma e cinismo oppure non ha più il fisico per fare quello che i Die Hard gli richiedono di fare? Soprattutto, Die Hard – Vivere o morire è un vero Die Hard?

A tredici anni dall’uscita del film, lasciateci dire che si tratta di questioni futili, e quello che colpisce davvero del film di Len Wiseman (a parte la brutta fine che ha fatto dopo Len Wiseman) è quanto una storia scritta nel 2007 suoni puntuale e affascinante anche nel 2020.

Die Hard – Vivere o morire doveva essere altro

Die Hard è da sempre una serie la cui storia produttiva riflette il suo protagonista: raffazzonata, improvvisata ma abbastanza brava ad arrangiarsi da uscire sempre vincitrice. Per esempio, le sceneggiature di Die Hard, con l’eccezione del secondo e del quinto film, nascono sempre come sceneggiature di altro, che vengono poi riadattate e ristrutturate intorno alla figura di John McClane. Quella di Vivere o morire era inizialmente la sceneggiatura di un film chiamato WW3.com, un titolo francamente terrificante per una storia ispirata all’altrettanto terrificante, ma per altri motivi, articolo di John Carlin intitolato A Farewell to Arms, che potete leggere qui.

Nel pezzo di Carlin, trasformato poi in film da David Marconi, veniva descritto lo scenario di un ipotetico cyber-attacco su larga scala nei confronti degli Stati Uniti, una di quelle azioni clamorose che mettono KO tutte le infrastrutture di una nazione e quindi la stabilità dell’intero edificio. Al tempo della prima stesura di Marconi, che precede il 2001, si parlava di questa eventualità soprattutto in ambienti militari e politici, e quasi esclusivamente come esercizio intellettuale; e anche nel 2007, quando il film venne considerato di nuovo “sicuro” (la produzione era stata bloccata proprio in seguito agli attacchi dell’11 settembre), l’idea che si potesse spegnere un’intera nazione con un computer sembrava ancora fantascientifica. Tredici anni dopo, Die Hard – Vivere o morire è praticamente cronaca.

Bruce Willis Justin Long

Die Hard – Vivere o morire e gli action hacker

Ovviamente, proprio perché parliamo di un film del 2007 facente parte di un franchise con un protagonista notoriamente conservatore, non dovete aspettarvi che Die Hard – Vivere o morire sia un realistico ritratto di una cyberguerra globale: come la sua colonna sonora si nutre di quel mix tra chitarroni, urla e melodie soavi che caratterizzava il rock pesante in quegli anni, così il film si abbevera alla fonte degli stereotipi sugli hacker e gli esperti di computer e sui terroristi freddi e affascinanti che si accompagnano a un’altrettanto letale pupa mozzafiato. E in fondo è Die Hard, non un documentario, e va benissimo così.

Anche perché l’introduzione dell’elemento hacker va al di là del semplice fatto che si tratta di gente che può spegnere l’America con un interruttore, e permea ogni singola sequenza d’azione, in una sorta di versione in anticipo di qualche anno del film su Watch Dogs che non vedremo mai. Poter controllare il traffico di una metropoli a distanza in un Die Hard significa avere accesso a un potenziale distruttivo su scala immensa, tanto è vero che Len Wiseman (uno con tanto entusiasmo, ma non la mano più ferma del mondo nel dirigere l’azione) si può permettere di abbattere un elicottero con una macchina dopo neanche mezz’ora perché tanto sa che potrà fare ancora molto altro.

Maggie Q

Ma è Die Hard o no?

E proprio da questa considerazione nasce il dubbio etico-filosofico che imperversa da tredici anni nel fandom di Die Hard: Vivere o morire è ancora canone o è già diventato qualcosa di spurio, un film di supereroi e non un film con John McClane? La distinzione può sembrare un sofismo inutile, ma uno dei segreti del successo di Die Hard, e il motivo per cui si differenziava da tutti gli altri action del decennio come vi spiegavamo qui, è nel suo protagonista, un tizio qualunque con tanto coraggio e incoscienza, sì, ma incapace di imprese sovraumane – “uno di noi”, con il quale identificarsi, non da idolatrare.

Con il prosieguo della serie, e la necessità di alzare sempre di più la posta in palio, John McClane ha cominciato a compiere evoluzioni sempre più assurde e spericolate, e ad avvicinarsi sempre di più al modello dell’eroe action reaganiano dal quale si era staccato. Il quinto capitolo della saga è un indiscutibile esempio, ma c’è chi sostiene che già in Vivere o morire le cose stessero cominciando a mettersi male, come dimostrato per esempio dalla succitata scena dell’elicottero.

Fate le vostre valutazioni a riguardo dopo aver visto (o rivisto il film), perché, Die Hard o meno, Vivere o morire è un film divertente seppur annegato in un po’ di CGI di troppo, una variazione sul tema del del buddy cop (o più in generale della strana coppia) dove al posto di uno dei due poliziotti c’è un hacker (Justin Long), che è giovane e hip e nerd e sfotte Bruce Willis perché gli piacciono i Creedence. La dinamica tra i due funziona, e la storia del cattivissimo Thomas Gabriel (Timothy Olyphant) che vuole spegnere l’America con i suoi computer e di John McClane che deve farlo è intricata il giusto, punteggiata da una più che adeguata quantità di esplosioni e pure vagamente profetica – abbastanza da meritare un ripasso.

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