Detective in erba, la mia nuova "parodia che non è una parodia" preferita | Badbuster
Passato sotto silenzio alla sua uscita Detective in erba è un film sorprendente, serio e divertente al tempo stesso che sa bene come si fa il cinema che vuol fare
Alle volte di un film colpisce la scrittura, alle volte la recitazione, altre ancora la fotografia o un’idea di montaggio particolare, questo esordio nel lungo scritto e diretto da Evan Morgan colpisce per la maniera in cui è in grado di mettere in armonia tutte queste componenti, dando una chiara direzione ad ogni elemento. Tutto è piegato nella stessa direzione per creare un’atmosfera ridicola e seria al tempo stesso. Non si tratta solo di bilanciare scene divertenti con scene drammatiche, una dopo l’altra, ma di usare il protagonista come un’antenna che emette un segnale drammatico mentre intorno a lui il mondo sembra sprofondare nella parodia. Un’impresa difficilissima in un film che non ha bisogno di denaro (come sempre è quando ci son le idee).
Ma andiamo con ordine.
Il titolo originale, non solo migliore ma anche più appropriato e avvincente dell’italiano che sembra suggerire coltivazioni, droghe leggere o campagna, è Kid Detective perché il protagonista è stato un bambino prodigio dell’indagine. Da piccolo indagava a scuola, risolveva casi, aiutava coetanei e ad un certo punto anche la polizia locale. Poi tutto è andato in malora e lo troviamo ora, ultratrentenne irrisolto, ancora detective ma appresso a indagini da 4 soldi, con sulle spalle il suo più grave caso irrisolto: la sparizione della sua allora segretaria. Una bambina mai ritrovata.
Qui, in queste poche informazioni iniziali, c’è già il segreto del film, affiancare il durissimo al comico. La bambina è scomparsa e non ne ridiamo mai, ridiamo semmai di come quest’adulto irrisolto sia trattato dal film come un bambino. Condivide la casa con altre persone, i genitori vengono a portargli la spesa, lui riottosamente si fa aiutare, è permaloso e ricorre sempre agli stessi stratagemmi pensando siano da adulti.
Detective in erba in teoria è una parodia dell’hard boiled, dei film con i detective duri e le dark lady che si presentano alla loro porta, languide, chiedendo aiuto per un caso impossibile. È Chinatown immerso nel mondo infantile del liceo, con la gassosa al posto del whisky, il preside al posto del sindaco, i genitori al posto della polizia. Ogni elemento caratteristico ha il suo equivalente mai cresciuto, bambinone, e in cima a tutto c’è il detective che nemmeno prova attrazione per la ragazza che viene a chiedergli aiuto, una nerd. Il caso è un’altra sparizione, dopo anni di depressione e compiti ridicoli come cercare gatti, riluttante il detective ci proverà davvero ad essere migliore e risolvere ora quel che non aveva risolto allora.
Non lo farà seguendo la poetica dell’uomo che affonda le mani nel nero, sprofondando in una spirale di complotti, marcio e abiezione umana, il detective esterno a tutto che come lo spettatore scopre e guarda gli eventi, ma raccontando una strana forma di purificazione del protagonista. Come detto è un’antenna che emette dramma ma con il procedere del film, a differenza dei classici detective, ha un arco narrativo. E così nel suo finale Detective in erba scopre le carte e svela di non essere realmente una parodia, nonostante le risate, ma la storia di un adulto irrisolto, uno dei moltissimi del cinema americano che si comportano come eterni bambini in una società in cui il lavoro è sempre più precario e si allungano i tempi per entrare a tutti gli effetti nel mondo del lavoro e dell’autosostentamento. Prima che vi tiriate indietro: non è un film politico, non ha un sottotesto politico (non più di tutto quello che viviamo) ma umano.
Detective in erba usa il genere per spiazzare e non per assecondare il pubblico, perché gli piace, lo ama e si diverte a trasferire tutti quegli elementi in un altro mondo, ma alla fine ama così tanto l’hard boiled da volere anche le sue conseguenze e ha il coraggio di mettere sullo schermo la meno facile e condivisa delle tesi: ciò che pensiamo di sapere, ciò su cui fondiamo la nostra conoscenza del mondo e l’immagine di noi stessi è un mucchio di informazioni approssimative, deduzioni e in linea di massima supposizioni casuali, caotiche, più che altro fallaci.