David di Donatello 2020: meglio i film dei votanti

In una delle migliori annate, da tutti i punti di vista, vince la conservazione, il sicuro e il cinema di una volta

Critico e giornalista cinematografico


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Bisogna necessariamente partire dalle belle notizie, cioè dalla cinquina per il miglior regista in cui tre candidati su 5 ai David di Donatello 2020 girano intorno ai 40 anni e un quarto ne ha 52. La brutta notizia è che a vincere è stato il quinto, Marco Bellocchio, 80 anni.

In un anno in cui Matteo Rovere ha creato un film come non se ne facevano da decenni e l’ha fatto con audacia, modernità e senso del cinema, in cui Claudio Giovannesi ha fatto un film di genere criminale fantastico e Pietro Marcello ha girato l’adattamento di romanzo internazionale riuscendo nell’impresa di farne qualcosa di completamente suo, è stata la storia di un pentito di mafia a vincere. Non che Il Traditore non sia un bel film. Lo è. Ma gli altri meritavano certamente di più.

Invece, nella più classica delle valanghe all’italiana, un film porta a casa i premi importanti (Il Traditore per l’appunto) e un altro i premi tecnici. In questa seconda categoria ha stravinto Pinocchio di Garrone, che pure di comparti tecnici eccellenti ne aveva (specie il trucco è sensazionale), ma è forte il sentore che premiare Il Primo Re sarebbe stato molto più importante e forse giusto. Rovere aveva vinto diversi premi tecnici già con Veloce Come Il Vento, sicuramente con Il Primo Re ambiva a qualcosa di più, l’annata è stata dura, i votanti dei David impietosi. Per fortuna almeno la faccia è stata salvata con il sacrosanto premio al miglior produttore per un film al limite dell’incoscienza produttiva.

Totalmente stritolato e mangiucchiato Ricordi? di Valerio Mieli, film sfortunato che non ha avuto nessun credito, poche nomination e mai davvero in gara, come anche Suspiria, presente in alcune categorie in cui la sua superiorità era così netta che fa solo ridere il fatto che non abbia vinto (grazie ai David adesso esiste un premio musicale in cui concorrevano Diodato e Thom Yorke e Thom Yorke ha perso), e assente in altre che gridano vendetta (regia, montaggio, produzione, sceneggiatura…).

Non c’è da girarci intorno: Guadagnino non piace al cinema italiano, non lo scopriamo oggi. E se non ha vinto tutto in passato con Chiamami Col Tuo Nome che speranze poteva avere questo film più difficile e complicato?

Mettendo insieme tutto ciò non è per niente difficile vedere il bicchiere mezzo pieno. Perché quest’anno in gara c’erano film ottimi, ottimi candidati ai premi tecnici (nella categoria miglior fotografia era letteralmente impossibile scegliere) e addirittura c’era tanto che non è stato nominato e avrebbe meritato.

Il bicchiere mezzo vuoto è che ha vinto quasi sempre la conservazione. Se si escludono alcuni premi scontati, sia per netta superiorità di un candidato sugli altri (Pierfrancesco Favino, di un’altra categoria proprio) le scelte dell’Accademia del cinema italiano, che per la maggior parte è composta da lavoratori del cinema (registi, attori, montatori, tecnici del suono ecc. ecc. ) sono andate verso il kolossal vecchio stampo di Garrone, il film antimafia di Bellocchio e là dove questi erano impremiabili o non candidati, è toccato al nome più famoso. Con un po’ di malizia è facile immaginare che uno dei tre David a Il Primo Re, quello per la miglior fotografia, sia arrivato non tanto per meriti (che pure ci sono) ma per lo starpower di settore di Daniele Ciprì di certo superiore alla concorrenza.

Resta da capire cosa abbia impedito a Franco Maresco di vincere il David per il miglior documentario con La mafia non è più quella di una volta, un vero mistero inspiegabile, anche se il vincitore, Selfie, è comunque un documentario stupendo (a riprova di come sia facile vedere il bicchiere mezzo pieno).

Tuttavia la piccineria dei votanti di fronte a un cinema quest’anno decisamente più grande e ambizioso dei loro pavidi voti si è vista tutta nella categoria che premiava il miglior regista esordiente. In una gara che comprendeva Leonardo D’Agostini, regista di Il Campione (un film italiano di sport vero! Fatto bene! In cui ci sono sequenze di calcio belle! Con effetti speciali invisibili e perfettamente adeguati alla dimensione e allo scopo del film! E addirittura con toni e tempi giusti per il proprio genere!), Carlo Sironi regista di Sole (l’esordio d’autore dell’anno), Igort regista di 5 è il numero perfetto (fumettone italiano pieno di difetti ma almeno criminale!) e Marco D’Amore con L’Immortale, a vincere è stato Phaim Bhuiyan, regista del film di gran lunga più sconclusionato, confuso, banale e mal concepito della cinquina. Cosa ancora più grave, visto il premio, Bangla era anche il film scritto peggio e diretto senza alcuna personalità, una commedia priva dei tempi comici, piena di scelte di casting fuori tono e fuori posto, un film d’ambizioni minuscole e riuscita ancor minore che non ha avuto nemmeno il merito di piacere al pubblico, cioè di incassare (200mila euro al botteghino).

Nondimeno, in linea con un’infatuazione dell’industria per questo film e con un’incredibile e potentissimo effetto simpatia che molto ha di stimabile ma pochissimo ha di cinematografico (gli applausi qui andrebbero a Domenico Procacci che a dispetto del film e dell’insuccesso cocente in sala l’ha comunque imposto nell’industria) Bangla ha vinto il David per il miglior regista esordiente.

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