Damsel: un “Dragon and Revenge movie” che oscilla tra la serie B e la predica
Damsel vorrebbe sovvertire l’immaginario alla Frozen con una deriva action. Ricade invece nella retorica più banale
Questo approfondimento contiene spoiler significativi su Damsel.
Non si capisce dove voglia andare a parare il regista Juan Carlos Fresnadillo (quello di Intruders e 28 settimane dopo). Una versione live action di un anonimo fantasy in chiave Netflix? Quando Elodie viene data in sposa al bel principe di un altro regno, questa volta ricchissimo, e appare la Regina Isabelle con le sembianze di Robin Wright si capisce già che sarà cattivissima. Qui il terrore di perdere due ore di vita. La mano si avvicina al telecomando con la rapidità di quella di un pistolero verso la fondina.
Sopravvivere alle creature in CGI
Mettiamo tutto sul tavolo: abbiamo un inizio tremendo, un colpo di scena interessante e una lunghissima parte centrale che si svolge tutta nelle tenebre. Un po’ un The Descent per ragazzi, con il cosplay di Smaug al posto dei mostri e senza l’horror. Praticamente un film di sopravvivenza con le creature magiche.
Altro che scuola della costruzione della tensione di Spielberg (non mostrare il mostro)! Il drago si vede sin da subito e tantissimo per tutto il film. Non è fatto male di per sé, il design funziona. Il problema semmai è che quando si punta tutto su un villain del genere, fatto in CGI e voce doppiata con i bassi forti, e lo si fa braccare la protagonista per tutto il tempo, bisogna che i poligoni digitali abbiano una presenza sul set. Invece, ed è un errore banale ma significativo, l’enorme mostro non sposta mai il vento. Non fa nemmeno tremare la terra, appare all’improvviso, non visto, come se il suo corpo fosse leggero come un fantasma. A volte sembra grandissimo, altre volte ridotto in scala. Non ci si crede quasi mai.
Poi, che i draghi cattivi per uccidere abbiano bisogno di un trauma famigliare che ci rende possibile identificarci con loro è una scelta di sceneggiatura discutibile quanto tutto il resto. Perché non appena Damsel riesce a divertire con questa sorta di “San Giorgio e il drago” in versione femminile, Netflix fa diventare tutta l’operazione femminista. Succede nel peggiore dei modi. Cioè quello non sentito, ma furbo e artificiale. Lo fa piattaforma, non il regista, perché Damsel è un film così spudoratamente algorithm friendly, che è impossibile credere che Fresnadillo abbia voluto girarlo veramente in questo modo. Quando Elodie capisce dov'è finita e quante donne sono morte lì prima di lei, instaura un legame con gli spiriti -solidali- delle altre principesse. Ciascuna ha scritto qualche indicazione sulle pareti o ha disegnato la mappa della tana, per aiutare coloro che sarebbero venute dopo.
“Non sono la Damsel di nessuno”
Damsel, al meglio, è un B movie leggerissimo. Va male invece quando vuole fare altro. Tipo diventare una pesantissima metafora della liberazione femminile, del cambio di ruoli e del salvarsi da soli tramite catena di solidarietà. Tutto questo è raccontato con il peggiore stile possibile, quello che propone le immagini più banali filmandole come se fossero chissà cosa. Millie Bobby Brown che cade, si ferisce e si brucia per tutto il film, guarisce da sola le proprie ferite e si rafforza. Mentre accade questo si spoglia dagli abiti nuziali e prende gli oggetti dei guerrieri morti in battaglia per diventare a sua volta un’eroina abilissima con la spada.
Non è dato sapere da dove abbia ricevuto questa "preparazione atletica". L’unica ipotesi che si può fare rende la sceneggiatura ancora più ovvia: dalla povertà in cui versa il regno. Dagli anni in cui anche un tozzo di pane andava sudato (signora mia... non ci sono più i giovani di una volta). Che ne sanno, invece, i ricchi del nuovo regno? Lei non è come loro, non ha lo stesso sangue, come si affanna a dire al drago. Lo fa per un motivo interno alla storia, ma sembra che parli a noi.
Il problema di Damesl è proprio questo. Non tanto l’incapacità della sua attrice protagonista di reggere da sola il film, bensì l’ansia di annacquare un’idea di intrattenimento vincente (una dama contro un drago) sotto una sequela infinita di messaggi banalissimi. Sono loro ad ammazzare ogni tensione in un film di fattura dignitosa, ma completamente fuori fuoco rispetto a ciò che vuole essere.
Così facendo, cioè relegando la sua protagonista a un veicolo di simboli moderni che dovrebbero descrivere un personaggio liberato dagli stereotipi narrativi, non fa altro che ricadere in una forma peggiore: lo stereotipo di genere. Nessuno aveva avvisato la produzione: non abbiamo più bisogno di eroine che affermano di poter essere guerriere, di essere più di una bella statuina. Già lo sappiamo grazie a una quantità infinita di film che hanno cambiato passo dopo passo il modo in cui si pensano le donne nel cinema d’azione. Dover ribadire lo stesso concetto, riportare quindi un personaggio a rompere gli schemi e dimostrare di valere quanto un uomo, laddove già lo spettatore è convinto della cosa, è oggi il peggior favore che si può fare alla causa.