Cube – Il cubo vi farà venire voglia di tornare nella stanza blu
Cube – Il cubo è un piccolo horror praticamente perfetto che parla di paranoia, claustrofobia, complotti e del motivo per cui la stanza blu è meglio
Sarà un caso, sarà il periodo di isolamento forzato e assurdità generalizzata della realtà, fatto sta che per la seconda volta in meno di un mese ci troviamo a parlare di un film paragonandolo alle opere di Franz Kafka. L’ultima volta era The Game, oggi invece citiamo lo scrittore ceco per un film uscito lo stesso anno del film di David Fincher, ma da un altro Paese e con tutt’altre intenzioni – nello specifico quella di terrorizzare e di seppellire il pubblico sotto strati di paranoia, nichilismo, complottismo e pure un po’ di sana violenza. L’altro Paese è il Canada, e il film è Cube – Il cubo, opera prima dell’americano (ma di origini italiane, e cresciuto a Toronto) Vincenzo Natali, girata nel 1997 con un budget pari allo stipendio settimanale di un calciatore della Premier League e da allora assurta a cult assoluto – nonché unico capitolo del franchise a valere davvero la pena, ma questo è un altro discorso sul quale torneremo.
Parto della mente di Natali, Cube – Il cubo è ispirato a un episodio di Ai confini della realtà intitolato Cinque personaggi in cerca di un’uscita, del quale potete vedere qualcosa qui
e che racconta la storia di cinque persone che si trovano intrappolate in un enorme cilindro apparentemente senza uscita, e devono trovare il modo di evadere. Odiamo rovinare le sorprese ma visto che si tratta di un episodio andato in onda cinquant’anni fa ci azzardiamo a farlo: quando riescono a fuggire, i cinque scoprono di trovarsi all’Inferno. Ed è proprio l’idea di girare un film interamente ambientato nell’Ade che sta alla base della prima stesura di Cube – Il cubo, che risale al 1994 e che, rispetto al risultato finale, ha un tono più comico e grottesco, e prevedeva tra l’altro la presenza di un mostro di qualche tipo.
A partire da questo spunto, Natali e Bijelic (Manson arriverà dopo) perfezionano lo spunto e cominciano un lavoro di sottrazione e asciugatura della sceneggiatura, eliminando riferimenti al mondo fuori dal cubo e riducendo tutto ai minimi termini. Che è poi quello che si vede nel film: Cube – Il cubo parla di sei persone che si risvegliano intrappolate in una stanza cubica, circondata da altre sei stanze cubiche, ciascuna delle quali potrebbe o non potrebbe contenere trappole; chi li ha portati lì? Qual è lo scopo del cubo? È possibile fuggire? Come si fa a distinguere una stanza pericolosa da una sicura? Come vedete non servono mostri vaganti o creature cannibali, e non serve neanche la presenza di cibo e acqua (inizialmente previste dalla sceneggiatura): Cube è un horror essenziale, high concept, focalizzatissimo, con un singolo scopo, e cioè scoprire come queste persone riusciranno (se ci riusciranno) a fuggire.
Per convincere qualcuno a finanziargli il film, Natali gira anche un corto, Elevated:
https://www.youtube.com/watch?v=n3SkMRTCov8
Elevated non serve solo come showcase delle sue qualità, ma anche e soprattutto come prova della fattibilità del progetto Cube: un horror monolocation girato in spazi angusti che però devono contemporaneamente dare l’idea di essere parte di un tutto gigantesco e dalle proporzioni impossibili da concepire per la mente umana. Elevated, soprattutto, funziona, piace, e garantisce a Natali e al suo team 350.000$ di budget per girare Cube – Il cubo. È qui che arriva quello che è il vero colpo di genio produttivo del film: il set consiste di un’unica stanza cubica con le pareti coperte di pannelli colorati, che possono scorrere e lasciare posto ad altri pannelli di un altro colore. Tutte le stanze, identiche a parte per il colore, che vedete nel film sono in realtà la stessa stanza; e siccome spostare i pannelli è un processo lungo e faticoso, Natali opta per girare Cube non in ordine cronologico ma cromatico: prima le stanze rosse, poi quelle verdi e così via.
Lo stesso mega-cubo nel quale si svolge tutto il film è una geniale creazione teorica che viene messa in scena grazie a un paio di trucchetti di regia: concepito con l’aiuto del matematico dell’università di East Carolina David Pravica, è un’immensa struttura cubica di 132 metri di lato, composta da 26*26*26 stanze altrettanto cubiche ciascuna di 4,7 metri di lato, per un totale di 17.576 stanze (meno qualcuna che serve perché i sotto-cubi non sono statici ma si spostano in continuazione, come in uno di quei famosi puzzle ma in versione 3D). Ovviamente il cubo non viene ricreato per intero: un po’ di camera a mano e tremolii vari servono per dare l’idea che, mentre i personaggi sono dentro una stanza, le altre 17.575 continuano a muoversi; il massimo che Natali deve fare è costruire un secondo semi-cubo con una sola parete, utile per le scene in cui i personaggi sono in una stanza e guardano in un’altra.
Tutto quello che abbiamo detto finora è affascinante se vi interessa il modo in cui i film vengono concepiti e realizzati, ma il risultato finale com’è? Com’è Cube – Il cubo, quasi 25 anni dopo? La risposta è semplice quanto il film stesso: è snello, teso, lineare, ritmatissimo, privo di momenti morti o perdite di tempo, ed è ancora oggi un horror efficacissimo. Perché da un lato ripropone una serie di strutture tipiche del genere, dalla presenza di un “party” di personaggi ciascuno caratterizzato non solo dalla sua personalità ma anche dalla sua utilità all’interno della trama (c’è la dottoressa, la matematica, il poliziotto, l’esperto di evasioni...) a quella di una final girl, o per lo meno di un personaggio che ne svolge le funzioni finché ci riesce, per finire con la tensione costante di non sapere se nella prossima stanza ci sarà una trappola mortale oppure no. E dall’altro elimina qualsiasi elemento di disturbo e tentazione di approfondimenti e backstory varie per concentrarsi su un solo dettaglio: ci sono sei persone intrappolate che non sanno come uscire, e questo è sufficiente per generare ansia.
Non servono mostri, non servono serial killer, non servono neanche troppe trappole (anche se le poche che ci sono sono tutte memorabili): il semplice fatto che questi sei poveracci si ritrovino in quella situazione e non possano farci nulla è sufficiente a generare angoscia. Cube – Il cubo è anche in questo senso uno studio sui personaggi, e sulle loro reazioni a una situazione estrema – e kafkiana, come dicevamo all’inizio. È la perfetta sintesi tra aspirazioni “alte” – volendo si possono scovare influenze di ogni tipo oltre a Kafka, da La biblioteca di Babele di Borges al fatto che i nomi dei personaggi fanno riferimento a famose prigioni del mondo – e quei pugni nello stomaco che servono in ogni horror che si rispetti, e Natali ha ragione anche quando sceglie di non spiegare davvero la natura del cubo e il suo scopo, ma di lasciare tutto all’interpretazione di chi guarda.
Che è poi il grande, grandissimo, enorme, imperdonabile difetto dei due sequel, Hypercube e Cube Zero, entrambi in lizza per il titolo di “peggior sequel di sempre” seppur per motivi diversi. Avevamo promesso che saremmo tornati sul discorso dei sequel e quindi eccoci qui, con un consiglio: ignorateli, guardate Cube – Il cubo e fermatevi lì. Fidatevi, è meglio così.