Creed – Nato per combattere è un gran film che fa a pugni con sé stesso
Creed – Nato per combattere è una fantastica rinascita per il franchise, ma anche una lotta costante tra passato e futuro
In attesa dell’uscita di Creed 3, il primo film della saga di Rocky Balboa senza Sylvester Stallone, facciamo un ripasso dell’intero franchise. Siamo quasi alla fine: oggi è il turno di Creed
Una dichiarazione che nel nostro mondo di franchise e cineuniversi di solito significa quello che sembra, e cioè “da qui in avanti mi tiro indietro”, e che altre volte significa invece “da qui in avanti mi tiro indietro, ma se volete faccio un lucroso cameo”. Ma stiamo parlando di Stallone e di Rocky: nonostante Ryan Coogler abbia tutta la libertà del mondo nel raccontare la storia del figlio di Apollo Creed, e nonostante Creed sia il primo film del franchise nel quale Rocky non prende parte neanche a un combattimento, è innegabile che la sua ombra sia onnipresente dietro le spalle del povero Adonis.
Il figlio (illegittimo, per non farlo puzzare di retcon) di Apollo è di Los Angeles, ma appena le cose si fanno serie si trasferisce a Philadelphia, una città che sostanzialmente coincide con Rocky come spiegato da lui stesso nel sesto capitolo (“Una volta che passi tanto tempo in un posto diventi quel posto”). Suo padre è stato forse il più grande pugile di sempre nell’universo di Rocky, ma è a Balboa che Adonis guarda come a un modello. Lo stesso schema sperimentato con Rocky Balboa (Rocky troppo vecchio per combattere che si ricicla un po’ controvoglia come allenatore) viene applicato anche a Creed, e il risultato è che, al netto dei pugni, Stallone si assume una sorta di multiruolo nel quale è sé stesso ma è anche l’Apollo allenatore e persino, in contumacia Paulie, la spalla comica.
La figura di Stallone in un film che parla di boxe è talmente ingombrante che per lunghi minuti Creed è attraversato da una tensione sotterranea, una domanda che nessuno ha il coraggio di fare ma che suona circa come “Rocky tornerà a combattere anche questa volta?”. Adonis ripercorre le stesse strade, gli stessi gradini, insegue le stelle galline: più che un reboot con un nuovo protagonista, il film sembra un eterno ritorno, un tuffo in un futuro nostalgico, che pare un ossimoro almeno finché non vediamo Michael B. Jordan e Sylvester Stallone salire di corsa quella famosa scalinata – lì all’improvviso anche il paradosso acquista un senso.
C’è quindi da fare doppiamente i complimenti sia a Coogler sia a Jordan per come riescano comunque a tenere il punto, e a mettere in scena un film su un giovane pugile affamato in cerca di riscatto e soprattutto della sua identità. Stallone è ingombrante, ma non invadente, e Donnie è abbastanza diverso dal giovane Rocky – oltre a vivere in un mondo completamente diverso, come illustra la scena boomer friendly nella quale Stallone scribacchia una serie di esercizi su un foglio a cui Jordan fa una foto prima di restituirglielo – da dare vita a dinamiche nuove, e a una ricerca di motivazioni (uno dei passaggi fondamentali di ogni Rocky) molto diversa da quella che alimentava The Italian Stallion.
Rocky era un affamato che non sapeva fare altro che dare pugni. Era arrabbiato, ma aveva soprattutto una gran voglia di sopravvivere, prima ancora di arrivare. Adonis Creed è una figura ancora più complessa, cresciuto in povertà assoluta e senza genitori ma salvato prima dell’adolescenza dalla madre adottiva, che l’ha tirato su in un contesto di lusso. Non sa quindi bene chi è, non ha mai conosciuto il padre, ha imparato a fare a pugni per proteggersi, ma allo stesso tempo fa fatica a venire accettato dal resto dell’ambiente perché viene visto come un ricco viziato, il suo passato dimenticato in favore dei suoi bei vestiti e della sua Mustang.
Eppure Coogler e Jordan riescono nel miracolo di non farlo risultare antipatico, forse perché lo immergono fino alla punta dei capelli nelle sue insicurezze e lo dipingono come una persona spaventata che conosce un’unica reazione ai problemi della vita: le botte. Aiuta in questo anche Tessa Thompson, un po’ relegata in secondo piano nel ruolo dell’Adriana di turno ma comunque abbastanza tridimensionale da non fare solo la figura del love interest. Rocky e Adriana erano due anime sole che si erano trovate e avevano passato la loro vita insieme a sostenersi a vicenda. Adonis e Bianca, lei soprattutto, sono più adulti nel senso di disincantati e cinici, anche individualisti volendo; il loro non è l’amore romantico e totalizzante dei vecchi Rocky ma un rapporto adulto e spigoloso (dove la vera adulta è soprattutto lei). E funziona anche la scelta di farla cantare ma di darle anche una forma di disabilità (progressiva perdita dell’udito che la porterà alla sordità, non l’ideale per una cantante), che dà una data di scadenza al suo sogno in ossequio a quanto Rocky spiega ad Adonis: che cioè il tempo è l’unico vero avversario, e l’unico che non ha mai subito una sconfitta.
Pur replicando con estrema fedeltà la formula di tutti i Rocky precedenti, e pur dovendo confrontarsi con quell’ingombrante figura paterna che è Sylvester Stallone, Creed riesce quindi a ritagliarsi il suo spazio e la sua personalità, ed esce un po’ frastornato ma integro dallo scontro con il passato del franchise. Probabilmente non c’era modo migliore di questo per far rinascere il mito di Rocky Balboa sotto altra forma.