Creed III è il primo vero Rocky senza Rocky
Creed III abbandona definitivamente il suo passato soprattutto dal punto di vista stilistico: ormai la serie appartiene a Michael B. Jordan
Questo speciale su Creed III fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone.
In Creed III, invece, Rocky è definitivamente fuori dai giochi. Lo è talmente tanto che viene citato direttamente una sola volta, e un’altra volta si accenna alle vicende del primo film senza però fare mai il nome di Robert “Rocky” Balboa ma solo quello di Apollo Creed. Non significa che il Rocky-ismo sia stato spazzato via, anzi: Michael B. Jordan, che si fa consegnare da Sly anche le chiavi della regia, è un devoto della saga. Lo è ancora di più Ryan Coogler, che ha scritto il film insieme al fratello e che si era già occupato del delicato momento in cui il franchise cambiò denominazione (parliamo del primo Creed, ovviamente). La sua sceneggiatura è un Frankenstein di spunti presi da altri, vecchi Rocky: dall’idea di un Adonis Creed imbolsito dalla vita genitoriale e dal ritiro dal ring (come all’inizio di Rocky III) a quella di incentrare la prima metà del secondo atto su una rivisitazione delle dinamiche del primissimo film.
E quindi di conseguenza dev’essere perfetto tutto quello che gli ruota intorno. Dove Rocky aveva il buffo robot che diventava il miglior amico di Paulie, Creed ha una casa di design e una moglie che non solo è bellissima, ma che ha anche miracolosamente superato la propria disabilità – utile a segnare un po’ di punti empatia nei primi due capitoli, ma ormai dimenticata forse per far splendere meglio Tessa Thompson, e relegata alla figlia della coppia. Solo quando fa comodo, però: c’è una scena nella quale Creed e Bianca litigano furiosamente ad alta voce in mezzo al salotto, e in questo modo svegliano la bambina che è in camera sua a dormire. Sono anche queste imprecisioni che impediscono a Creed III di elevarsi e dimostrano la differenza tra un film supervisionato da Stallone e uno che ha solo la sua benedizione.
Anche ma non solo. Come detto, Creed III è il debutto alla regia di Michael B. Jordan, che porta in eredità tra le altre cose una mai nascosta passione per manga e anime, e per quelli sportivi in generale. Questo si riflette inevitabilmente sul risultato finale. In termini narrativi: il film abbandona la sottigliezza e la coralità dei film di Stallone per dedicarsi quasi esclusivamente allo scontro tra due personalità, che vengono definite in un modo che sta tra l’archetipico e lo stereotipico. Si veda in particolare la scena nella quale l’amico Damian si trasforma ufficialmente nel villain. E si riflette ovviamente anche sulla messa in scena, con un’abbondanza di citazioni che vanno da Dragonball a My Hero Academia e soprattutto una certa tendenza a privilegiare i singoli momenti (con slo-mo, primissimi piani e altri trucchetti simili) a discapito del flow dell’intero combattimento.
Il risultato è indubbiamente spettacolare e gradevole per gli occhi (anche se la scelta di trasfigurare il ring per l’ultimo combattimento trasformandolo nel Sottosopra di Stranger Things potrebbe non convincere tutti), ma manca del ritmo drammatico dei Rocky, e della loro capacità di costruire una piccola epica all’interno dello stesso combattimento. Nei film di Stallone ogni battaglia sul ring era un percorso e portava avanti l’arco narrativo di entrambi i partecipanti senza bisogno di troppe parole. Nei film su Creed, e in Creed III in particolare, i combattimenti servono a mettere in mostra il talento visivo del regista, e a farci godere dei singoli momenti, anche a costo di ammazzare ogni ritmo e ogni possibilità di climax.
Si può comunque perdonare tutto o quasi a Michael B. Jordan perché si tratta del suo debutto, ed è meglio un autore che porta le sue idee e sbaglia di uno che si affida solo a idee altrui per non sbagliare. Rimane però il dubbio che forse a Jordan il franchise sia stato affidato un po’ oltre il tempo massimo: ora che è finalmente il padrone di casa, il suo personaggio si è già ritirato. A meno che l’idea non sia di coltivare la figlia e trasformare Creed nella sua storia: non ci sorprenderebbe (anche perché ormai, quando si parla di franchise e di scuse per crearne, non ci sorprendiamo più di nulla).
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